mercoledì 29 febbraio 2012

BOCHENSKI 1 (FILOSOFIA)


FILOSOFIA
1)Tratta di ciò che le altre scienze non trattano (=Arist.: la filosofia si occupa di tutto il sapere)
CONFUTAZIONI:  allora la filosofia oggi sarebbe molta di meno di quella che effettivamente è/ se si afferma che la filosofia non esiste, allora già solo dicendo ciò, si fa filosofia.
2)Indaga qualcosa che sta oltre l’intelletto (filosofia=musica, poesia)
CONFUTAZIONE: Si può conoscere solo con l’intelletto o i sensi: ciò che sta al di là non può essere conosciuto.
Bochenski: la filosofia ho l’obiettivo di spiegare la realtà. E’ per lui sbagliato attribuire un oggetto specifico alla filosofia in quanto questa è una scienza universale, il suo oggetto è l’intero, la totalità. Sono quindi da eliminare tutte quelle prospettive esclusiviste che attribuiscono alla filosofia oggetti particolari.
La filosofia è tuttavia diversa dalla scienza per il metodo: la filosofia non si preclude nessun metodo d’indagine e per il punto di vista: mentre le scienze partono da presupposti, la filosofia parte da ciò che è alla radice.
à cfr. T. D’Aquino: la filosofia è disciplina comune a tutti gli uomini: solo alla fine di un lungo percorso però uno può essere filosofo.

LEGGE
Si parla qui delle leggi scientifiche oggettive, universali e necessarie su cui si basano le scienze sperimentali o pure (matematica). Boch. Parla della legge come introduzione alla filosofia: come Platone che parla della matematica come introduzione alla filosofia.
Se la legge è universale, necessaria e anche eterna, il mondo ha invece un’origine ed è transitorio e mutevole.
-Confronto con Hume: le leggi non sono univ. E necessarie di per se. La necessità deriva dall’abitudine ad esse; le leggi sono funzioni del nostro pensiero.
CONFUTAZIONE: come mai le leggi valgono per il mondo se sono funzione del pensiero?
-Confronto con la tesi eccessiva che dice che il mondo è frutto del pensiero. La legge è l’attività secondo cui il soggetto costruisce il suo mondo. (Kant) Il soggetto opera, per Kant, secondo regole universali e necessarie e la legge che il soggetto segue mentre agisce è comunque oggettiva.
-Posizione idealistica: le leggi esistono ma trascendono la dimensione spazio-temporale. L’uomo può conoscerle più o meno bene:
 Realismo platonico: la legge esiste in se e per se, si manifesta nella realtà ed è rielaborata dall’intelletto.
 Realismo moderato (Arist.): la legge esiste nella realtà sotto forma di essenze che l’uomo può conoscere e
 rielaborare ma non sussiste in se e per se.
 Concettualismo (Ockham): la legge è solo  un concetto mentale.
Bochenski propende per un idealismo platonico.
Cfr con Marx: rapporto essere ideale-reale
Se il cristianesimo afferma la realtà della dimensione ideale, i marxisti sono si materialisti ma ammettono l’esistenza di leggi universali. La storia stessa segue leggi universali. Molti affermano che il marxismo è più idealista del cristianesimo in quanto in base al cristianesimo le leggi si fondano su Dio che però non è lui stesso una legge. L’ideale non si fonda su se stesso. Nel marxismo invece l’ideale è il livello massimo, si fonda su se stesso.

TACITO-DIALOGUS DE ORATORIBUS

DIALOGUS DE ORATORIBUS

Lo stile di quest’opera si discosta da quello tipico di Tacito e si avvicina maggiormente a quello di Cicerone, ma poiché rientra in un determinato genere letterario imita lo stile tipico di quel genere e di conseguenza allo stile di Cicerone. Una cosa simile accomuna le altre opere di Tacito, l’Agricola rimanda a Sallustio mentre la Germania a Cesare, queste somiglianze però riguardano i contenuti e non lo stile. La decadenza dell’oratoria è un argomento tipico della letteratura dell’età Giulio-Claudia e Flavia. Ci sono due tesi a riguardo della decadenza dell’oratoria:

× Colpa attribuita alle scuole (Petronio; Tacito non la condivideva)

× Retorica ed eloquenza possono fiorire solo in periodi vivi dal punto di vista politico, ovvero nella repubblica e non nell’impero in cui c’è mancanza di libertà (visione condivisa da Tacito)

La fiamma dell’eloquenza p.409

36.1 La grande eloquenza, come una fiamma, è aumentata dalla materia (argomento o combustibile a seconda che si parli di fiamma o di fiamma o eloquenza) ed è stimolata dalla vivacità e ardendo risplende. La stessa ragione ha promosso anche nella nostra società l’eloquenza degli antichi.

36.2 Infatti sebbene gli oratori anche di questi tempi conseguirono quei risultati che era lecito raggiungere in uno stato meno ordinato, in pace e fiorente, tuttavia sembravano conseguire per se risultati maggiori in quella situazione di sconvolgimento e libertà sfrenata, in un momento in cui la situazione era sfrenata e priva di una sola guida ed essendo ciascun oratore potente tanto quanto il popolo disorientato poteva essere persuaso.

36.3 Da questa situazione derivano leggi in continuazione e la ricerca della fama presso il popolo, i discorsi dei magistrati che per così dire passavano le notte sui rostri, le accuse contro i colpevoli potenti, le inimicizie che si riversavano anche nelle famiglie i partiti dei patrizi e le continue lotte del senato contro la plebe.

36.4 Anche se questi singoli aspetti laceravano lo stato tuttavia stimolavano l’eloquenza di quei tempi e sembravano fornire grandi ricompense poiché, quando può ciascuno era abile nel parlare tanto più facilmente otteneva cariche tanto più superava i suoi colleghi proprio nelle cariche tanto più otteneva presso i patrizi riconoscimento presso i senatori autorità e presso la plebe fama.

36.5 Questi abbondavano di clienti di nazioni straniere, i magistrati in procinto di partire per le province li onoravano al ritorno preture e consolati sembravano addirittura chiamarli, quelli (gli oratori) nemmeno da privati erano senza potere poiché reggevano il popolo e il senato con autorità e decisione.

36.6 Anzi proprio loro si erano persuasi che nessuno senza l’eloquenza potesse o ottenere nella città (a Roma) o mantenere una posizione di assoluto rilievo

36.7 E non c’è da stupirsi poiché erano portati (a parlare) di fronte al popolo anche contro volontà (non erano preparati, improvvisavano) poiché non era sufficiente decidere velocemente in senato se non per chi sostenesse la sua idea con ingegno ed eloquenza, poiché avevano la possibilità di rispondere di persona quando erano oggetto di qualche ostilità o accusati, poiché erano costretti a prestare anche testimonianza nei processi pubblici non assenti e né per iscritto ma a voce essendo presenti.

36.8 Così anche una grande necessità si aggiungeva alle più alte ricompense dell’eloquenza (eloquenza era anche necessaria) e come l’essere considerato eloquente era ritenuto bello e fonte di gloria così al contrario il sembrare muto e privo di lingua era considerato vergognoso.

Commento

36.1 L’eloquenza si è sviluppata fino ai tempi di Tacito perché era inserita nel giusto contesto, c’era la materia prima.

36.2 I tempi della repubblica erano una gran confusione, gli oratori erano seguiti perché riuscivano a convincere il pubblico. Al tempo di Tacito c’è una guida politica forte, c’è lo stato e quindi anche pace e ordine. La repubblica rimarrà per Tacito un periodo di confusione anche dal punto di vista politico mentre inizialmente ha fiducia nel principato, visto come garante della pace, questa convinzione andrà via via sfumando. Lui non loda i tempi antichi, vede nel periodo che sta vivendo un ottimo periodo, egli si focalizza sull’ordine che viene a mancare nel periodo repubblicano.

36.3 Oratori che facevano di tutto per farsi valere. I magistrati a volte coincidevano con gli oratori. L’oratoria fiorente in questo periodo si alimentava con i disordini, per Tacito è meglio avere uno stato pacifico che un’oratoria fiorente in un tempo disordinato.

36.5 Si rifà allo stile di Cicerone ma risente delle influenze del suo secolo. Inoltre già Seneca ha apportato grandi modifiche nella sintassi. Stesso pronome con delle varianti, soggetto o oggetto (variatio). Si potrebbe trovare un nesso con Cicerone ma non solo anche Seneca e Quintiliano, lo stesso Seneca ha lasciato un segno tangibile nella letteratura latina.

36.6 Tacito spesso usa coppie di aggettivi o sostantivi che spesso riconducono ad endiadi. Parla ancora degli oratori in età repubblicana che alla fine erano i veri detentori del potere sia a Roma sia fuori città.

36.7 prove del fatto che gli oratori erano davvero i detentori del potere. Non avevano mai la possibilità di scrivere qualcosa ma per far valere le proprie tesi dovevano esporla di fronte a un pubblico.

TACITO- LE HISTORIAE

LE HISTORIE
Si tratta di un testo di carattere annalistico. A noi sono giunti 4 libri e parte del quinto (probabilmente circa un terzo del totale, si pensa infatti fossero 12). Le Historie raccontano gli anni più vicini a Tacito (il 69 e il 70 d. C., successivi alla morte di Nerone) ma sappiamo che l’intento era quello di arrivare fino ai suoi giorni (principato di Traiano).

L’OBIETTIVITA’ DELLO STORIOGRAFO (PAG. 415-417)
1. Inizierò la mia opera a partire dal consolato di Servio Galba per la seconda volta e di Tito Vinio. Infatti molti autori ricordarono gli ottocentoventi anni dell’epoca precedente dopo la fondazione di Roma, mentre le vicende del popolo romano venivano ricordate con eloquenza pari alla libertà di espressione: ma dopo che si combattè ad Azio (31 a. C.), e fu nell’interesse della pace conferire tutto il potere nelle mani di uno solo, quelle grandi menti si spensero; contemporaneamente la verità fu violata in molti modi, in primo luogo per l’ignoranza della vita pubblica come se fosse estranea, poi per il piacere di adulare o per l’odio contro colui che domina:così nessuno dei due ebbe la preoccupazione per i posteri, né gli ostili, né gli adulatori.
2. Facilmente si potrebbe distogliere l’adulazione degli scrittori, invece la denigrazione e l’invidia vengono accolte con orecchie aperte; la terribile accusa di asservimento è propria dell’adulazione, la falsa apparenza di libertà è propria della malignità.
3. Da me, Galba, Otone e Vitellio (imperatori 68 d.C.) non sono conosciuti né per beneficio né per ingiustizia. Non potrei negare che la mia carriera sia iniziata con Vespasiano, sia continuata sotto Tito e sia stata promossa sotto Domiziano: ma nessuno deve essere menzionato né con amore né con odio da coloro che professano una lealtà incorrotta.
4. E se la vita bastasse, in principato del divo nerva e l’impero di Traiano, che sono di argomento più ricco e più sicuro, ho riservato alla vecchiaia poiché è un periodo di raro benessere in cui è permesso pensare ciò che si vuole e dire ciò che si pensa.

COMMENTO
1. La libertà di espressione è venuta meno durante l’età imperiale; inoltre le “verità” che si diffondono sono diverse, fondamentalmente rispecchiate da due atteggiamenti diversi, che non sono utili agli autori per scrivere correttamente e obiettivamente: nessuno pensa ad una storiografia che sia utile!
2. I due atteggiamenti a cui Tacito si riferisce sono l’adulazione e l’odio. L’adulazione è il male minore nel senso che chi legge capisce facilmente un’opera di tipo adulatorio ma si è comunque più propensi a leggere scritti che esprimano odio verso il potente perché esso è una sensazione più condivisa da tutti. Queste opere però avevano solo la parvenza di esprimere libertà (sembra che si esprima vero e proprio odio ma in realtà non è così, altrimenti non sarebbero passate alla censura).
3. Vengono nominati tre dei quattro imperatori del 68 e poi i tre seguenti. Tacito non né parla né con amore né con odio: l’atteggiamento dell’obiettività lo accompagnerà per sempre.
4. Tacito non scriverà di questi imperatori perché non aveva più voluto farlo: si avrà un progressivo peggioramento infatti del suo pessimismo. Secondo l’autore nemmeno avendo imperatori positivi si può parlare di età felice e di benessere.

VITELLIO VISITA IL CAMPO DI BATTAGLIA DI BEDRIACUM (PAG. 422-423)
1. Da Pavia Vitellio si diresse a Cremona e dopo aver assistito allo spettacolo offerto da Cecina, desiderò soffermarsi sul campo di battaglia di Bedriacum ed esaminare con gli occhi ciò che rimaneva della recente battaglia. Era uno spettacolo cruento e atroce: nel quarantesimo giorno dopo la battaglia c’erano corpi lacerati, arti tranciati, sembianze putrefatte di uomini e cavalli, la terra sporca di sangue, une terribile desolazione a causa degli alberi e dei frutti schiacciati.
2. E non meno umano era l’aspetto della via che i cremonesi avevano coperto con alloro e rose, innalzati altari e sacrificate vittime secondo il costume regio; questi festeggiamenti sul momento portarono poco dopo a loro stessi la rovina.
3. Valente e Cecina erano presenti e mostravano i luoghi della battaglia: dicevano che da una parte la schiera dell’esercito aveva fatto irruzione, da una parte i cavalieri si erano levati a battaglia, dall’altre il braccio ausiliario dell’esercito era stato circondato; di già i tribuni ed i prefetti, ciascuno esaltando le proprie imprese, mischiavano il falso al vero o alle cose maggiori del vero. Anche la massa dei soldati deviava dal cammino con urla di gioia, riconosceva i luoghi della battaglia, guardava il mucchio di armi e cadaveri; e c’erano anche coloro ai quali la mutevole sorte, le lacrime e la misericordia si presentavano.
4. Ma Vitellio non distolse lo sguardo e non inorridì per le tante migliaia di cittadini insepolti: per giunta gioioso e ignaro della sorte tanto vicina, dava disposizioni per allestire sacrifici alle divinità del luogo.

COMMENTO
1. Vitellio è innanzitutto un imperatore soldato, è molto presente l’idea della violenza e della crudeltà. Nella battaglia appena svoltasi i generali romani erano l’uno contro l’altro ed i Cremonesi avevano parteggiato per Vitellio. Alla fine della battaglia non era probabilmente stato completato il lavoro di pulizia del campo oppure lo scempio era stato così grosso da poter essere pulito tutto.
2. Lo stacco al punto due del brano è molto brusco: dopo il desolato scenario del campo sono descritti oggettivamente i festeggiamenti per l’arrivo di Vitellio in città. In un certo senso si percepisce una certa disumanità in questi festeggiamenti: è brutto infatti festeggiare quando ci sono ancora vicino i resti del sanguinoso conflitto. Il “costume regio” che cita tacito fa sicuramente riferimento a pratiche e culti orientali mentre la “rovina” di cui parla alla fine del periodo fa riferimento ad una secondo battaglia successiva in cui Vitellio verrà sconfitto e la città di Cremona danneggiata.
3. Questo periodo può essere interpretato in due differenti modi: secondo il primo ci troviamo davanti ad un climax discendente ( generali, funzionari, esercito ed infine Vitellio per dare maggiore enfasi alla sua crudeltà ed al compiacimento per la strage, del tutto diverso dalla gioia e dalla commozione dei soldati); secondo un atro punto di vista “volgus” può essere inteso come il “popolo” della città di Cremona, in questo caso il riferimento al popolo funge da distacco ancora maggiore e più brusco prima del “ritorno” alla crudeltà di Vitellio nel periodo successivo.
4. Le due particelle “at non” ovvero “ma non” all’inizio del periodo rendono ancora più enfatico il distacco tra la descrizione precedente e quella dell’atteggiamento di Vitellio.

lunedì 27 febbraio 2012

SCHOPENAUER (FILOSOFIA)


SHOPENAUER (da pag. 5 a pag. 11)

Lo scritto più importante di Schopenauer che, tra l’altro, influenzò molto anche Nietzsche, è “Il mondo come rappresentazione e volontà”. Da questo si puù comprendere tutta la sua riflessione filosofica.
Schopenauer ritiene infatti che il mondo non sia altro che una rappresentazione, ovvero qualcosa che non esiste in se e per se ma esiste solo in quanto rappresentato. Il mondo è costruito dalla soggettività in base a 3 categorie: spazio, tempo e causalità. Queste permettono l’individuazione dell’oggetto: spazio e tempo sono le categorie della sensibilità mentre la causalità è la forma a priori dell’intelletto.  La differenza principale rispetto a Kant è che, mentre per quest’ultimo l’intelletto giudica ma non intuisce, per Schopenauer l’intelletto intuisce. Schopenauer è molto critico nei confronti sia dei realisti sia degli idealisti. I primi infatti ritengono che l’oggetto esista indipendentemente dal soggetto e fanno quindi derivare il soggetto dall’oggetto; gli altri invece ritengono che l’oggetto non sia altro che creazione del soggetto,  risolvendo quindi l’oggetto nel soggetto. Sch. Ritiene invece che la conoscenza sia data dall’unione di soggetto e oggetto in quanto indissolubili: nessuno può prevalere sugli altri. Il mondo come rappresentazione è caratterizzato dall’ordine e dalla razionalità. Sch. Si chiede se sia in qualche modo possibile squarciare il “velo di Maya” (espressione ripresa dalla filosofia indiana), ovvero il mondo come apparenza, per arrivare al noumeno. Anche Kant si era posto il problema della realtà in se: egli aveva dichiarato l’impossibilità per l’uomo di arrivare a conoscere la realtà in se, pur riconoscendo, a livello morale, il valore della volontà come qualcosa di incondizionato.
Secondo Sch. è possibile arrivare a conoscere la realtà in se attraverso l’esperienza che noi facciamo del nostro corpo: infatti questo può essere conosciuto sia come un qualsiasi oggetto ma anche come sede di  una forza assolutamente irriducibile alla rappresentazione che è la volontà. Quest’ultima si manifesta come brama di vita, come una forza cieca e irrazionale che non conduce a nessun tipo di ordine o di stabilità essendo al di là del mondo fenomenico, e che mira solo alla conservazione di se. Per analogia il filosofo considera questa definizione di realtà come principio primo non solo dell’uomo ma della realtà intera.
La volontà si oggettiva secondo diversi gradi; il più basso è quello caratterizzato dalle forza naturali quali gravità, magnetismo e elettricità, per poi arrivare agli impulsi tipici degli animali fino a quello propri degli individui umani, Ci sono poi anche delle oggettivazioni della volontà che sono una “via di mezzo” tra la cosa in se e il fenomeno ovvero le idee, modelli universali secondo cui si conforma la realtà. La visione di Sch. è sicuramente pessimistica, visto che tutto ciò che è armonia e ordine è soltanto illusione. La società civile e politica nascondono solamente un prevalere di forza ed egoismo. La storia quindi non è altro che irrazionalità, diversamente da come pensava Hegel. La volontà, in quanto desiderio di qualcosa che non è ancora stato raggiunto è privazione; in quanto soddisfazione momentanea del conseguimento dell’oggetto della volontà è noia.
Esistono 3 modi secondo Sch. per liberarsi dall volontà:
1) ARTE. Nell’arte l’uomo si eleva alla contemplazione di un qualcosa di universale (idee) astraendo da spazio tempo e causalità che individuano un oggetto che viene contemplato quindi come qualcosa di universale. Questo comporta che anche l’artista si liberi dall’individualità per contemplare l’universale. Questa capacità di liberazione dall’individualità è però limitata al tempo in cui l’oggetto viene prodotto e quindi l’arte non è altro che un processo poco stabile di liberazione dalla volontà. L’arte prevede una classificazione in base alla quale, partendo dai livelli più bassi, si arriva a gradi di manifestazione della volontà sempre maggiori. La classificazione è la seguente: architettura scultura pittura letteratura(tragedia) e musica. La tragedia è il massimo grado di oggettivazione della volontà. Le tragedie si distinguono in base a 3 criteri ovvero se la vicenda è messa in moto da un essere mostruoso, se è frutto di una fatalità oppure se è determinata dai caratteri dei singoli personaggi ovvero dalla struttura della realtà stessa. Quest’ultima è quella che Sch considera più elevata proprio perché attribuisce il dolore alla realtà stessa evitando di introdurre qualcosa di esterno e accidentale. La musica invece non è oggettivazione della volontà ma è presentazione intuitiva della volontà stessa in quanto attraverso la melodia mette in luce la pluralità dei desideri e delle passioni dell’uomo.
2) MORALE
La morale si divide in diritto e compassione. Entrambi sono modi di liberazione dalla volontà. Grazie al diritto infatti l’uomo non compie azioni che possono ledere la volontà degli altri e contiene la sua brama di vita. Mediante la compassione invece ci si immedesima negli altri e ci si libera da una prospettiva individualistica.
3)ASCESI
E’ il modo migliore e più stabile di liberazione dalla volontà. L’ascesi consiste nella repressione di tutti i desideri della vita sensibile: il desiderio del mangiare o l’impulso sessuale.
Una volta compiuto questo processo si passa dalla VOLUNTAS alla NOLUNTAS ovvero la non volontà, la liberazione totale dal desiderio. A questo punto si diventa saggi. Nonostante si potrebbe pensare che Sch. sia favorevole al suicidio in quanto negazione della volontà di vita, questo è un errore. Il suicidio infatti non è altro che un’affermazione della volontà di vita stessa in quanto il suicida VUOLE porre fine alla propria vita.

martedì 21 febbraio 2012

L'ORATORIA E DEMOSTENE PARTE 1 (GRECO)

L’ORATORIA

La Grecia è la patria, oltre che della tragedia e della commedia, anche dell’oratoria e della retorica. La prima consiste nel pronunciare discorsi in pubblico con la finalità, generalmente, di convincere l’uditorio della propria idea e si distingue in oratoria giudiziaria, epidittica e politica.

La retorica, invece, altro non è che la “teoria” dell’oratoria, ovvero la codificazione delle regole da seguire per costruire un discorso efficace. Il primo retore ed oratore in Grecia fu Gorgia (V secolo a.C. Sicilia), che pronunciò discorsi sulla base delle indicazioni che lui stesso aveva dato.

I primi esempi di oratoria si ritrovano già nell’antichità, ad esempio delle opere omeriche, dove, durante le assemblee, chi prendeva la parola cercava di convincere il resto dell’assemblea della validità della sua causa ( si pensi a Nestore o ad Ulisse), attraverso il classico schema captatio benevolentiae- richiesta.

Nonostante il primo vero oratore fosse di origine siciliana, la vera patria dell’ oratoria fu Atene, dove c’erano diverse occasioni di dialogo pubblico (ad esempio le assemblee popolari o, tornando un po’ indietro, le tragedie, in cui due personaggi contrapponevano i loro agoni, diventando così oratori per un momento).

L’oratoria che più si sviluppò, in una prima fase, fu quella giudiziaria. Qui collochiamo Lisia, un logografo molto abile nello scrivere discorsi di difesa ( la sua caratteristica principale era la ηθοποια, ovvero la capacità di immedesimarsi nell’accusato e riprodurne le idee, il linguaggio, lo stato d’animo).

DEMOSTENE

CONTESTO STORICO

Siamo nel 404 a.C. dopo la fine della guerra del Peloponneso; Atene è sottomessa al governo oligarchico spartano che, a causa della sua incompetenza nel gestire i vasti territori ateniesi, ha vita breve.

Segue il breve periodo dell’occupazione militare Tebana, che termina con la battaglia di Mantinea (362 a.C.); a questo punto i Persiani, approfittando del momento di debolezza interna della Grecia, minacciano un nuovo attacco.

Il vero pericolo, tuttavia, non sono più i Persiani, ma Filippo, il re di Macedonia. Dopo essere stato chiamato in aiuto da una città dell’anfizionia per risolvere una disputa interna alla lega, egli, di diritto, entra a far parte del consiglio dell’anfizionia.

L’unica città che percepisce il reale pericolo dato da Filippo è Atene, che tenta di mettere in guardia le altre città greche, con scarsi risultati.

Si formano quindi due schieramenti: uno anti-Filippo, capeggiato dall’oratore ateniese Demostene, l’altro filo-Filippo, capeggiato da Isocrate ed Eschine, secondo cui il vero nemico erano ancora i Persiani e Filippo costituiva un importante mezzo di difesa e di unità per la Grecia.

Alla fine Demostene fallirà: egli infatti sosteneva ancora il particolarismo, il sistema di autogoverno delle polis greche, ormai divenuto fallimentare. Ciononostante bisogna riconoscere la validità oratoria di Demostene, che costituirà un modello per l’ oratoria latina.

VITA

Demostene nasce ad Atene all’inizio del IV secolo a.C. da una famiglia facoltosa, il cui patrimonio viene prosciugato dai precettori di Demostene e dei suoi fratelli in seguito alla morte del padre;

contro costoro il giovane oratore intenterà molte cause.

Pare che Demostene fosse gracile e balbuziente: egli riuscì a correggere la balbuzie (forse tenendo dei sassolini in bocca) e ad aumentare la sua capacità polmonare, per cui era richiesta una certa robustezza, esercitandosi davanti al mare in tempesta.

Egli ricevette in seguito importanti incarichi diplomatici.

Pag. 727 e seguenti:

Si tratta di due orazioni di età giovanile in cui Demostene avanza la sua proposta di investire il tesoro custodito ad Atene per armare la città, allo scopo di difendersi contro Filippo.

In esse emergono due tematiche che ritroveremo in tutta la produzione di Demostene:

- La necessità di combattere: c’è bisogno di un esercito cittadino (non costituito da mercenari , che costano e non sono affidabili) che difenda la città della minaccia macedone; non bisogna restare con le mani in mano, permettendo a Filippo di estendere il suo potere in Grecia, bisogna fare il necessario per fermarlo il più presto possibile.

- La necessità di arame un esercito cittadino con i soldi della città: Atene infatti, dopo la guerra, aveva vissuto un periodo di ripresa economica, durante il quale aveva costituito una nuova lega; tuttavia, a differenza della lega Delio- Attica, qui Atene aveva un ruolo meno egemone e le poleis aderenti alla lega erano libere di contribuire economicamente al sostegno di essa e di uscirne quando avessero voluto (Atene aveva quindi corretto le sue mire imperialistiche manifestate durante il periodo della lega Delio- Attica). Il tesoro della lega era sempre custodito ad Atene sotto forma di θεωρικον, ovvero come fondo per permette anche ai meno abbienti di andare a teatro. Tuttavia il teatro ha ormai perso la sua originaria importanza e Demostene, rendendosene conto, avanza due proposte per un migliore sfruttamento del tesoro: la prima proposta è quella di sfruttare TUTTO il tesoro per l’armamento della città; la seconda (quella che realmente Demostene voleva far approvare, sapendo che la prima proposta non avrebbe avuto successo) proponeva invece di preparare un certo numero di navi e di armare un certo numero di uomini, che dovevano fungere da “spauracchio” nel caso in cui Filippo si fosse nuovamente inserito in qualche contesa tra le polis greche.

INTEGRARE CON LA LETTURA PAG 18- 21 DEL LIBRETTO “In difesa della libertà”.

Pag 731 e seguenti (della letteratura): PRIMA FILIPPICA

Nell’esordio si fa riferimento alla modalità con cui si prendeva la parola durante le assemblee: se l’argomento trattato fosse stato nuovo Demostene avrebbe seguito la procedura usuale, ma poiché così non è, egli decide di prendere la parola per primo poiché chi dovrebbe parlare prima di lui non è stato in grado di consigliare rettamente la città.

Successivamente rivolge una serie di esortazioni e di rimproveri ai suoi concittadini: Atene è stata in grado di abbattere il governo dei 30 tiranni e di sconfiggere Sparta, un nemico potente. Pertanto non deve temere una sconfitta da parte di Filippo, se si fa CIO’ CHE SI DEVE FARE (ovvero mettere in comune le proprie risorse e arruolarsi, età e risorse permettendo).

Il problema degli ateniesi è la negligenza: non è che Filippo sia forte, è che ha trovato una situazione favorevole, resa possibile dall’inerzia di Atene, che gli ha permesso di aprirsi un varco nella conquista della Grecia.

Se anche Filippo morisse, Atene lascerebbe che un altro prendesse il suo posto, proprio perché alla città manca la volontà di difendere sé e la Grecia tutta.

A queste considerazioni segue l’esposizione di un concreto piano d’azione, in cui Demostene descrive chiaramente quanti uomini armare, quante navi preparare e secondo quale modalità (anche qui fa riferimento al fatto che l’esercito debba essere costituito in buona parte da cittadini ateniesi e non da mercenari).

martedì 14 febbraio 2012

REALISMO (ARTE)

Anni ’40 ’50 dell’ ‘800 si diffonde il Realismo, descrizione fedele della realtà.
MILLET
Dipinge la realtà contadina, di cui faceva parte prima di trasferirsi a Parigi, in modo realistico, non idealizzato. Segue un pensiero cristiano, incentrato sulla sopportazione delle fatiche del lavoro.
OPERE:
IL SEMINATORE (Pag. 166):
Ambientazione tardo autunnale, il seminatore scende da un pendio e domina il dipinto, i suoi tratti non sono per nulla idealizzati, sono brutali. Il gesto di seminare è un atto di fede del contadino, anche se sullo sfondo i corvi non sono di buon auspicio(si preparano a mangiare i semi). L’opera fu esposta al Salone Ufficiale ma fu criticata per due motivi: la camicia rossa del contadino rimanderebbe al comunismo e la gamma cromatica è poco ampia.
LE SPIGOLATRICI (Pag. 167): Ambientazione estiva, le contadine con foulard colorati sul capo lavorano in un tramonto luminoso. Le forme delle donne sono sinuose, le fanno rendere parte della natura stessa. Sono presenti tre covoni di fieno, così come sono tre le contadine. I colori sono luminosi e il dipinto esprime tranquillità, per l’accettazione del lavoro quotidiano (non vi sono smorfie di fatica).
ANGELUS: Momento della preghiera serale di una famiglia contadina cristiana (un uomo e una donna). I volti sono in ombra, i vestiti molto poveri, gli attrezzi sono momentaneamente riposti, l’uomo leva il cappello. Millet propone ancora una volta l’accettazione della propria condizione, è per questo visto come garante dell’ordine sociale.

DAUMIER
Daumier è un artista a tutto tondo; egli è sia uno scultore che un pittore. Inizia la sua carriera di artista come vignettista satirico (piccoli ritratti) e viene incarcerato per la pestante censura di quel tempo. Egli prendeva di mira con la sua arte i personaggi di spicco della società e della politica a lui contemporanea. Ne è un esempio la vignetta, “Rue Transnonain”, espressione di disappunto morale per il massacro di una famiglia da parte di soldati. Daumier è considerato un artista all’avanguardia, ma incompreso nella sua ricerca di modernità. La sua scultura si allontanò dalle forme neoclassiche di Canova, presentando un’estetica più geometrica e grezza. Ne è un esempio “Ratapoil” (1850), probabile raffigurazione stilizzata di Napoleone III. Egli anticipa in un qualche modo la scultura di Auguste Rodin e Medardo Rosso, con le loro opere cariche di espressività, attraverso l’indeterminatezza delle forme. Daumier è considerato un realista soprattutto per i temi delle sue realizzazioni pittoriche (dipingeva anche le classi più povere) e per la stesura approssimativa del colore. “Vagone di terza classe” è uno dei suoi dipinti più famosi, raffigurante un vagone affollato da gente del popolo, tra cui, in primo piano, una vecchia (figura centrale), un bambino e una donna che allatta. Il dipinto è poco illuminato, i colori hanno tonalità scure e l’atmosfera appare intrisa di fumo e polvere.
COURBET
Courbet esordì al Padiglione del realismo, dove vennero esposte le opere rifiutate al Salone Ufficiale. Le sue opere hanno un fine di denuncia politica e sociale e non esprimono un’ideologia cristiana (come Millet). Egli ha un pensiero affine al naturalismo, fiducioso nel progresso e più distante dal verismo, pessimista nella visione della società. Tra le opere principali troviamo “La spiaggia di Palavas”, facilmente paragonabile a “Il monaco in riva al mare” di Friedrich. Nella prima opera la figura umana (forse lo stesso Courbet o il committente del dipinto) è centrale e saluta davanti al mare, quasi come gesto di sfida di fronte alla natura (lo stesso Courbet era molto vanitoso), nella seconda invece il monaco ha minore importanza, è avvolto nelle sue vesti e si sente impotente davanti alla grandezza che lo sovrasta. Nel dipinto di Courbet la suddivisione dei piani è piuttosto accademica. Courbet si dedicò anche alla politica ma non ne fece oggetto dei suoi dipinti. Agli esordi della sua carriera egli si dedica alla ritrattistica, tipica ancora del romanticismo, come ad esempio “Il ritratto di Baudelaire”; dipinge anche alcuni autoritratti come “Autoritratto con il cane nero”, in atteggiamenti fieri, abbigliato da dandy o “Uomo ferito”, dove si ritrae semisdraiato con un’ evidente ferita di spada, come un eroe romantico oppure ancora in “Uomo con cintura in pelle”, dove utilizza una luminosità simile a Caravaggio. Tra i temi fondamentali della sua pittura vi sono la denuncia sociale, la natura e il nudo femminile (anche criticato, come “L’origine du monde”). Per quanto riguarda la denuncia sociale dipinge “Gli spaccapietre” (Pag.163), rappresentazione della miseria di questi uomini, in modo non religioso e più pessimistico rispetto alla serena rassegnazione di Millet. Poco spazio è dedicato al cielo (simbolo della speranza nella provvidenza). I colori sono quelli della terra, piuttosto scuri e Courbet fu criticato per questo motivo. Altra opera famosa è “Un seppellimento a Ornans” (Pag. 168); il dipinto stupì molto per le sue grandi dimensioni, dato il soggetto insignificante. Non vi è l’ideale cristiano del rito della sepoltura, ma la morte viene vista come qualcosa di banale. Si legge sui volti dei partecipanti alla cerimonia il loro perbenismo formale, ma in verità essi sono disinteressati all’evento. La rappresentazione avviene senza idealizzazione e sembra che si possano percepire dall’opera le abitudini dei personaggi (per esempio l’alcolismo). 
L’opera venne criticata soprattutto da Champfleury che considerò poco consono l’accostamento nella schiera dei partecipanti al funerale di popolani e benestanti; inoltre, a differenza di altri autori più tradizionalisti, come Velasquez (che rappresentò la famiglia reale), egli utilizza una tela molto grande per rappresentare persone comuni e non famose. Un altro dipinto importante di Courbet è "L'atelier del pittore" (Pag.170). L'opera è di grandi dimensioni e raffigura Courbet stesso mentre dipinge. Al suo fianco vi sono una modella nuda (simbolo della nuda verità) e un bimbo(simbolo di purezza). Sulla destra sono presenti le persone che nella vita di Courbet sono state d'aiuto, sulla sinistra chi l'ha ostacolato o è stato uno spettatore passivo. Per terra troviamo degli oggetti spesso rappresentati nei dipinti romantici (pugnale, cappello con la piuma, chitarra). Secondo Courbet il pittore ha il ruolo fondamentale di intermediario di conoscenza vera. 

domenica 12 febbraio 2012

ELETTROMAGNETISMO 2 (FISICA)

MOTO DI UNA CARICA IN UN CAMPO ELETTRICO: (da p 175 a p 176)
Le leggi della meccanica in questo caso valgono anche in elettrostatica e quindi, fissato un asse di riferimento x diretto nella direzione del campo elettrico E, la posizione della carica è individuata da una legge oraria del tipo: x = ½ at2 + vot = ½ q/m Et2 + vot. Dalla dinamica infatti sappiamo che F = ma e dall’ elettrostatica che F = qE, per cui, confrontando le due relazioni e ricavando a si ottiene che a = q/mE.

LA MISURA DELLA CARICA ELETTRONICA E L’ESPERIMENTO DI MILLIKAN : (da p 178 a 179)

Come è già stato detto la carica elettrica misurata nei fenomeni su scala macroscopica è data da un elevatissimo numero di cariche fondamentali del valore di 1,6 x 10-19 C ( positive o negative ) : noi sappiamo infatti che la carica elettrica è quantizzata e quindi che una qualsiasi carica elettrica q è sempre un multiplo intero(n) della carica elettrica fondamentale ( o quella del protone o quella dell'elettrone). Ossia si ha sempre : q = ne oppure q = np.

A riuscire a calcolare per primo l’effettivo valore di tale carica, fu , nel 1910, lo scienziato americano Robert Millikan, il quale individuò direttamente tale valore mediante un esperimento in cui riuscì a misurare l’entità della forza agente su un corpo su cui era depositata una carica pari a quella dell’elettrone ( o a multipli di essa).






L’apparato di cui si servì per tale esperimento (mostrato nell'immagine sopra riportata) è costituito da due armature piane e parallele caricate con segno opposto in modo che tra le due si formi un campo elettrico uniforme ( si trattava quindi di un condensatore piano parallelo) . Se si spruzzassero delle piccole goccioline d’olio (elettricamente scariche) all’interno di tale apparato, esse si muoverebbero verso il basso sotto l’azione della forza di gravità, senza risentire della tensione tra le due armature. In questa situazione le goccioline cadrebbero in un primo momento con un’ accelerazione g ma poi, raggiunta la velocità di regime, essa sarebbe eguagliata dalla forza d’attrito viscoso dell’aria e le goccioline continuerebbero quindi a muoversi con velocità costante.
Supponendo però che le goccioline siano state precedentemente caricate, il loro moto potrà essere:
*accelerato, se la forza elettrica è concorde con quella gravitazionale
*decelerato, se la forza elettrica è discorde rispetto a quella gravitazionale ma minore di essa
*accelerato verso l’alto, se la forza elettrica è opposta a quella di gravità e più intensa di essa
*fermato, se la forza elettrica è opposta e uguale in modulo a quella di gravità (la gocciolina rimane in sospensione aerea tra le armature del dispositivo)
Millikan riuscì a regolare l’intensità del campo elettrico generato tra le due armature in modo che si verificasse l’ultima situazione. In tal modo egli sapeva che la forza elettrica uguagliava quella di gravità e quindi si ha che
Fe = Fg qE = mg
Dove q è la carica della gocciolina, m la sua massa, E il valore del campo elettrico e g l’accelerazione di gravità.
Si può così ricavare il valore della carica q:
q = mg/E
In questa espressione non è però nota la massa della gocciolina. Essa quindi viene ricavata sperimentalmente.
La determinazione sperimentale del valore della massa mediante una misura diretta era però impossibile da effettuare e dunque richiedeva un metodo di misura indiretto. In assenza di campo elettrico, le goccioline tendono a cadere sotto l’azione della forza peso, ostacolate dalla resistenza dell’aria: dopo un certo tempo esse raggiungono una velocità limite che tendono a mantenere nel seguito ( si tratta dunque di un moto uniforme). Tale velocità limite dipende dalle caratteristiche delle goccioline e da quelle del mezzo viscoso nel quale si muovono secondo la seguente espressione: v = 2/9 gR2ρ/η e quindi R = √9/2 ηv / ρg, dove η è la viscosità dell’aria, R è il raggio delle goccioline e ρ è la densità dell’olio di cui è costituita la gocciolina. La determinazione della velocità limite è facilmente effettuabile nel regime di moto uniforme con l’aiuto di una scala graduata posta sull’oculare del microscopio e di un cronometro, mediante la relazione v = x/t. Una volta misurata la velocità, si può risalire al valore di R( essendo noti i valori di ρ, η e g). In base alla definizione di densità ρ = m/ V, ed essendo il volume della sfera V = 4πR3/3, si ha: m = ρV = ρ4πR3/3 e dunque, dalla misura di R, si può risalire alla misura della massa m.
Le goccioline sono caricate in modo non uniforme : confrontando i diversi dati sperimentali sulle cariche delle goccioline, Millikan poté osservare che esse risultano essere sempre multiple di una stessa quantità, la carica elementare e, dal valore stimato di circa 1,6 x 10-19 C.

LA CAPACITA’: ( da p 179 a p 182)

Nella maggior parte dei condensatori piani, la differenza di potenziale tra le armature è direttamente proporzionale alla carica Q presente su di esse. Introducendo una costante di proporzionalità, questa relazione diventa l’equazione Q = CV, da cui mi posso ricavare C = Q/V. La costante di proporzionalità C viene chiamata capacità ed esprime la carica elettrica accumulata per differenza di potenziale unitaria. L’unità di misura di questa grandezza fisica è il farad ( F), dove un farad ( 1 F ) è uguale a un coulomb al volt ( 1 C/V).

Sappiamo inoltre che la capacità di un condensatore piano è direttamente proporzionale alla superficie delle armature e inversamente proporzionale alla loro distanza. Introducendo la costante dielettrica del mezzo materiale ε, questa relazione diventa l’equazione : C = εS/d.
Nel caso di un condensatore sferico di raggio R la capacità vale: C = 4π εR.

ENERGIA POTENZIALE ELETTRICA IMMAGAZZINATA NEL CONDENSATORE: ( p 182)

Sappiamo che l’energia immagazzinata nel condensatore ( o il lavoro svolto dal generatore per caricare il condensatore è espressa da : U = L = ½ QV. Questo ,perché ,se ci immaginiamo di rappresentare il tutto su un grafico cartesiano e in particolare ci immaginiamo di posizionare sull’asse x la carica Q e sull’asse y la differenza di potenziale elettrico V ,ci accorgiamo che l’energia immagazzinata nel condensatore si può trovare calcolando l’area del triangolo rettangolo che nel mio grafico cartesiano ha come cateti Q e V; per calcolare l’area di un triangolo rettangolo devo moltiplicare la base per l’altezza ( in questo caso particolare, i due cateti) e dividere tutto per due ed arrivo dunque alla formula U = L = ½ QV.
Dato che Q = CV, questa equazione può anche essere scritta in altri modi, a seconda di cosa ricaviamo : L = U = ½ QV = Q2/2C = ½ CV2.
Mediante altre operazioni è possibile mettere in relazione l’energia immagazzinata in un condensatore piano con il campo elettrico che si crea tra le sue armature; infatti , in base all’equazione C = εS/d, si può scrivere l’equazione precedente in modi diversi, a seconda di cosa ricaviamo : L = U = ½ CV2 = ½ εS/dV2 = ½ εS/d E2d2 = ½ E2Sd.

I DIELETTRICI : ( da p 182 a p 185 )

Per dielettrico si intende un materiale isolante che, nella maggior parte dei condensatori, viene inserito tra le due armature ( esso può essere per esempio un foglio di materiale isolante appunto, come di carta o di plastica) e che ha diverse funzioni.
Innanzitutto, impedisce che le due armature vengano a contatto, cosa che permetterebbe agli elettroni di rifluire indietro sull’armatura positiva, neutralizzando in tal modo la carica del condensatore e l’energia in esso immagazzinata. Dà inoltre la possibilità di arrotolare a forma di cilindro coppie di armature flessibili in foglio di alluminio, permettendo di ottenere così condensatori di dimensioni più contenute. Infine, accresce la quantità di energia immagazzinabile nel condensatore. Quest’ultima proprietà dipende dal materiale scelto come dielettrico ed è quantificata dalla cosiddetta costante dielettrica relativa al mezzo materiale εr, che sarebbe uguale al rapporto tra la costante dielettrica del mezzo materiale ε e la costante dielettrica del vuoto εo, pari a circa 8,85 x 10-12 C2/Nm2; la costante dielettrica relativa al mezzo materiale è un numero puro(ε = εo εr).

E’ chiaro che l’inserimento di un dielettrico tra le due armature di un condensatore è uno dei modi per aumentare la capacità C del condensatore stesso, come anche lo sono il fatto di aumentare la superficie dei due condensatori oppure di diminuire la loro distanza (C = εS/d).

COLLEGAMENTO DI CONDENSATORI IN SERIE E IN PARALLELO: ( da p 185 a p 188)


L’immagine sopra riportata è un esempio di come si colleghino in serie due o più condensatori; quando i condensatori sono collegati in serie, la carica è la stessa su tutte le armature : Q = Q1 = Q2 =… Qn.
La somma delle singole cadute di tensione lungo tutti i condensatori è uguale alla tensione ai capi del generatore : V = V1 + V2 + … Vn.
Si definisce capacità equivalente in serie e si indica con Cs, la capacità di un singolo condensatore in grado di sostituire i condensatori in serie; conosciamo inoltre che esiste questa relazione : 1/ Cs = 1/C1 + 1/C2 + …1/Cn.

L’immagine sopra riportata è un esempio di come si colleghino in parallelo due o più condensatori; quando i condensatori sono collegati in parallelo, le differenze di potenziale tra le armature dei vari condensatori sono tutte uguali fra loro e uguali a quella col generatore : V = V1 = V2 = … Vn.
La carica totale è uguale alla somma delle cariche dei singoli condensatori : Q = Q1 + Q2 +… Qn.
Nel caso di condensatori collegati in parallelo, la capacità equivalente Cp, è semplicemente la somma delle singole capacità dei condensatori : Cp = C1 = C2 =… Cn.

IL CONCETTO DI CORRENTE ELETTRICA E L’INTENSITA’ DI CORRENTE ELETTRICA : ( da p 196 a p 199 )

A livello intuitivo con il termine corrente elettrica siamo soliti indicare un flusso di elettroni : essa può essere continua ( se fluisce sempre nello stesso senso, nello stesso verso e con la stessa intensità ) oppure alternata. Il verso effettivo della corrente elettrica è quello che va da punti a potenziale maggiore ( + ) a punti a potenziale minore ( - ), in quanto è questo il verso in cui si muove il flusso di elettroni; tuttavia, per convenzione, si considera il verso della corrente elettrica I opposto a quello in cui si muove il flusso degli elettroni e si dice quindi che il verso convenzionale della corrente elettrica è quello che va da punti a potenziale minore ( - ) a punti a potenziale maggiore ( + ).
Per capire però come la corrente elettrica possa fluire bisogna far riferimento al concetto di dislivello, inteso non in senso meccanico ma in senso elettrico : perché essa possa fluire, è infatti necessario che ai capi del conduttore ci sia una differenza di potenziale, un dislivello elettrico appunto.

A livello quantitativo, invece, con il termine intensità di corrente elettrica, si intende la quantità di carica che attraversa la sezione di un conduttore nell’unità di tempo e si scrive : I = ΔQ/Δt; l’unità di misura dell’intensità di corrente elettrica è l’ampere ( A ) , dove un ampere ( 1 A ) è uguale a un coulomb al secondo ( 1 C / 1 s ).

LA VELOCITA’ DI DERIVA DEGLI ELETTRONI : ( da p 200 a p 201 )

Sotto l’effetto della differenza di potenziale, il flusso effettivo degli elettroni è caratterizzato da una velocità media, chiamata di velocità di deriva, che si somma alle velocità che caratterizzano il moto casuale a cui sono soggetti di per sé gli elettroni e che è molto minore di esse.
La velocità di deriva degli elettroni in un conduttore metallico può essere calcolata in base a un semplice modello microscopico : possiamo, per esempio, considerare un tratto rettilineo di conduttore di lunghezza l e di sezione costante A, percorso da corrente e possiamo cercare di trovare una relazione tra l’intensità della corrente I circolante nel filo e la velocità di deriva degli elettroni, che indichiamo con vd. Sappiamo che, all’estremità di destra del tratto di un conduttore, l’intensità della corrente è costante, e quindi I = ΔQ/Δt. In un intervallo di tempo t = l/ vd, tale estremità è attraversata da un certo numero N di elettroni, ciascuno di carica e, quindi da una carica complessiva Q = Ne.
Il numero di elettroni è calcolabile moltiplicando il numero di elettroni per unità di volume, che indichiamo con la lettera n minuscola, per il volume V del filo, dato da Al. Quindi la carica complessiva è Q = nAle. La corrente I è data dunque da : I = ΔQ/Δt = nAle / l / vd = nAe vd; da qui possiamo ricavare la velocità di deriva degli elettroni vd = I / nAe.

LA PRIMA E LA SECONDA LEGGE DI OHM E LA RESISTENZA ELETTRICA : ( da p 202 a p 205 )

La prima legge di Ohm afferma che il rapporto tra la differenza di potenziale V tra due punti di un conduttore metallico a temperatura costante e l'intensità di corrente che fluisce in esso è costante. R = V/I V = RI (R = resistenza elettrica). I conduttori che seguono questa legge sono detti ohmici. La resistenza è una grandezza fisica nuova che si misura in Ohm ( Ω ) dove un Ohm ( 1 Ω ) è uguale a un Volt su un Ampere ( 1 V / 1 A ) .

La seconda legge di Ohm afferma invece che a parità di ogni altra condizione, la resistenza R di un conduttore è direttamente proporzionale alla sua lunghezza e inversamente proporzionale alla sua sezione. Si ha quindi che R = ρl / S ovvero che ρ = RS / l, dove ρ è la resistività o resistenza specifica e ha come unità di misura l’ ohm per metro (Ω x m ). Questo ci dice che la resistenza di un materiale dipende anche dalle caratteristiche proprie del materiale, in quanto ρ varia da materiale a materiale ( ossia dal tipo di atomi che lo costituiscono) : ρ ci esprime infatti la natura chimica della seconda legge, l ed S invece quella geometrica. Un’altra grandezza a cui si fa riferimento a volte è la conducibilità elettrica del materiale , che si indica con la lettera σ e che varia anche essa da materiale a materiale e che è l’inverso della resistività e che ha quindi come unità di misura uno su un ohm per metro (Ω x m )-1 : σ = 1 / ρ.

DIPENDENZA DELLA RESISTENZA E DELLA RESISTIVITA’ DALLA TEMPERATURA : ( da p 206 a p 207 )

Sia la resistenza R sia la resistività ρ non sono indipendenti dalla temperatura : sappiamo infatti che la resistenza e la resistività a una temperatura T, in seguito a una variazione di temperatura ΔT = T – To, sono date rispettivamente da : R = Ro ( 1 + αΔT ) e ρ = ρo ( 1 + αΔT ).
La costante α che compare in queste due equazioni è detta coefficiente di temperatura della resistività ed il suo valore si determina sperimentalmente , mentre ρo e Ro sono i valori di riferimento della resistività e della resistenza a To ( in genere, a 20 gradi centigradi o a 0 gradi ).
L’equazione ρ = ρo ( 1 + αΔT ), che mostra la dipendenza della resistività dalla temperatura, ricorda l’equazione della legge di dilatazione termica l = lo ( 1 + αΔT ).

LA POTENZA ELETTRICA E L’EFFETTO JOULE : ( da p 211 a p 213 )

In generale per potenza si intende la quantità di lavoro compiuto nell’unità di tempo e si scrive : P = ΔL/ Δt; essa è una grandezza fisica che si misura in Watt ( W ), dove un Watt ( 1 W ) è uguale a un joule al secondo ( 1 J / 1 s ). Facendo riferimento in particolare alla potenza elettrica possiamo scrivere così P = ΔL/ Δt = qΔV / Δt = IΔV = V2/ R = I2R.
Parlando di questo argomento è utile introdurre anche il concetto di effetto Joule : noi sappiamo che tutte le volte che abbiamo una resistenza e che facciamo passare della corrente attraverso di essa c’è un cambiamento di temperatura e che in particolare all’aumentare della corrente aumenta la temperatura e viceversa : questo aumento della temperatura è chiamato appunto con il nome di effetto Joule.

COLLEGAMENTO DI RESISTENZE IN SERIE, IN PARALLELO E MISTO : ( da p 214 a p 222 )




L’immagine sopra riportata è un esempio di come si colleghino in serie due o più resistenze ; quando le resistenze sono collegate in serie l’intensità di corrente elettrica I è la stessa in tutto il circuito : I = I1 = I2 = … I n.
La somma delle singole cadute di tensione lungo tutte le resistenze è uguale alla tensione ai capi del generatore : V = V1 + V2 + … Vn.
Si definisce resistenza equivalente in serie di due o più resistori e si indica con Rs , la resistenza di un resistore capace di sostituire i resistori in serie; nel caso di resistenze collegate in parallelo la resistenza equivalente è semplicemente la somma delle singole resistenze dei singoli resistori : Rs = R1 + R2 +… Rn.



L’immagine sopra riportata è un esempio di come si colleghino in parallelo due o più resistenze : quando le resistenze sono collegate in parallelo la differenza di potenziale V è la stessa in tutto il circuito : V = V1 = V2 = … Vn; la somma delle singole intensità di corrente lungo tutte le resistenze è uguale all’intensità di corrente ai capi del generatore : I = I1 + I2 + … I n. Si definisce resistenza equivalente in parallelo di due o più resistori e si indica con Rp , la resistenza di un resistore capace di sostituire i resistori in parallelo.
Sappiamo inoltre che esiste questa relazione : 1/ Rp = 1 / R1 + 1 / R2 + … Rn da cui possiamo ricavare la resistenza equivalente del circuito.

Si parla infine di collegamento misto di resistenze quando alcune resistenze sono collegate in serie e altre in parallelo.