LATINO

ORAZIO:
LA VITA: (pag. 180-182):
Quinto Orazio Flacco nasce nel 65 a.c. a Venosa (Puglia). Figlio di un liberto, il padre, proprietario di un piccolo podere, lo portò con se a Roma, per effettuare studi approfonditi di letteratura greca (poeti arcaici) e filosofia ed ebbe contatti con i circoli epicurei. A 20 anni si recò in Grecia
Per perfezionare gli studi. Nel 42 a.c. partecipò alla battaglia di Filippi come “tribunus militum”
Sostenitore della libertà repubblicana. Riportata la sconfitta della sua fazione durante la sua battaglia, Orazio, tornato a Roma, trovò il padre morto e il suo podere confiscato. Essendo in una situazione economica disagiata si impiegò come “scriba quaestorius” ed iniziò a scrivere i suoi componimenti. Venne presentato a Mecenate da Virgilio nel 38 a.c.. nel 37 egli lo accolse nel suo circolo. Si avvicinò, infatti, ad Ottaviano ma rifiutò il ruolo di segretario non solo per continuare a scrivere i suoi componimenti, ma anche perché dopo la battaglia di Filippi non volle avere più niente a che fare con la politica. Nel 33 a.c. l’amico Mecenate li donò un podere nella Sabina dopo la pubblicazione del primo libro delle Satire. A contatto con la natura agreste iniziò la vera e propria produzione di Orazio, che andò avanti fino ai suoi ultimi anni di vita.
Morì nel 8 a.c. e fu sepolto presso la tomba di Mecenate alle pendici dell’Esquilino.
OPERE (pag. 182-183):
41 a.c.: inizia a scrivere Epodon liber e Sermones;
35 a.c.: oubblica il primo libro dei Sermones e il secondo nel 30;
23 a.c.: pubblica i primi 3 libri dei Carmina (ODI);
23-13 a.c.: scrive 2 libri di epistole e li pubblica dopo il 20 a.c.;
17-13 a.c.: compone il Carmen Saeculare, l’ars poetica, il quarto libro dei Carmina.
TESTI E CONTENUTI:
A Taliarco pag.230 (carmina I)
Strofe alcaica, fonte di ispirazione Alceo.
Versi 1-3 Giambici
Verso 4 2 sillabe dattiliche e 2 trocaici
Descrizione iniziale del paesaggio invernale predominato dal colore bianco, e che rimanda alla solitudine e alla tristezza e immobilità. Si parte da un campo visivo lungo (Soratte, piccolo monte romano innevato) fino ad arrivare a scovare i particolari più vicini (fiume, boschi). Orazio riprende il modello arcaico di poesia (la descrizione del paesaggio non è mai fine a sé stessa, il paesaggio reso vivo da certi termini e svolge una funzione evocativa) e anche il modello ellenistico come Catullo (descrizione di un paesaggio talvolta esotico ma sempre conosciuto, come anche in Virgilio). Non sappiamo chi sia Taliarco (nome parlante greco); può essere il simposiarca ( Talia= banchetto + archè= comando) oppure un giovane schiavo addetto a versare il vino durante il simposio. Il nome ci dice che c’è un banchetto greco in un contesto romano.
Dal verso 5 al verso 8 c’è un rimando al testo di Alceo: il merum= vino, con un’aggiunta della denominazione geografia Sabina (vino poco pregiato).
Contrapposizione caldo (ambiente interno) e freddo (esterno). Dal verso 9 al 12 orazio invita l’interlocutore a non preoccuparsi del futuro, ma curarsi solo del presente, poiché l’uomo ha limiti ristretti e quindi non deve pensare ad altro che a bere e scaldarsi, al resto ci pensano gli dei. Dal verso 13 inizia una digressione sulla limitatezza umana: ora il paesaggio assume una funzione evocativa. (C’è una serie di imperativi rivolti a Talirco e anche ai lettori). Si intravede la concezione edonistica epicurea, ma un po’ volgarizzata. Orazio contrappone il verde Virenti (primavera, giovinezza) al bianco Canitiaes (inverno , vecchiaia, neve). Orazio utilizza exempla che rimandano a scene della vita vissuta (ultima strofa) ed anche termini del linguaggio economico (lucro) che concretizzano l’exemplum.
Carpe Diem (pag. 234-235)
Metro: sistema asclepiadeo V (Sclepide, poeta lirico arcaico che si dedica a poesia d’amore)
Leuconoe è un nome parlante che significa mente candida, ovvero rimanda a una ragazza giovane, ingenua e pura. Leuconoe rappresenta una ragazza romana che si interroga riguardo al suo futuro presso gli oracoli.
I romani erano piuttosto superstiziosi e si affidavano a oroscopi orientali, soprattutto babilonesi, che avevano fama e valore; Orazio consiglia di non considerare questi oroscopi, giudicandoli illeciti(nefas) e inutili.
Orazio invita ad accetare quello che quello che viene sia che il tempo rimasto da vivere sia lungo sia che sia breve. L’ambientazione invernale rimanda alla vecchiaia.
L’espressione “spatio brevi” può avere due interpretazioni: può essere inteso come “in breve tempo” (fai in fretta a lasciar perdere le tue speranze!) oppure come “poiché il tempo è breve (abl.ass. con valore causale).
Il termine “resecare” indica un taglio netto un immagine concerta; la speranza va troncata subito come se fosse un ramo da troncare.
Anche in quest’ode si fa riferimento all’ambiente simposiale: il vino aiuta a dimenticare la brevità della vita, non più solo a scaldare (v. Taliarco).
Per l’espressione carpe diem consultare ultima nota del libro pag. 235
A Cloe, la cerbiatta pag. 238
Metro: sistema asclepiadeo III
Cloe: nome parlante che significa “verde” che rimanda alla giovinezza; infatti Cloe è una ragazza giovane, inesperta, bella, con un atteggiamento simile a quello di una cerbiatta impaurita.
Elementi coloristici della strofa: verde, primavera, lucertola che richiamano la stessa Cloe.
Figure di suono: tremolio delle ginocchia e del cuore, fruscio delle foglie.
Siamo calati in un paesaggio primaverile, non più invernale, il cerbiatto è “nuovo” come la primavera.
Il poeta cita due animali esotici, leone e tigre, tipici della poesia ellenistica. I romani vedevano questi animali durante i giochi nell’arena, viene meno l’idea del luogo esotico, si parla di una realtà concreta agli occhi dei romani.
Il poeta non sta chiedendo in sposa la fanciulla, infatti Cloe è una delle tante donne a cui Orazio si riferisce nelle sue odi.
A Postumo (pag. 241-243):
Metro: strofa alcaica
Postumo è un uomo di identità ignota. Questo nome veniva dato ai figli nati dopo la morte del padre. Inoltre l’etimologia della parola POST(umo) fa pensare che sia un nome parlante che rimandi al tema oraziano del ‘non pensare al dopo!’
L’amarezza del passo è data fin dall’apertura con i termini ‘fugaces’ e ‘labuntur’. Le rughe, la vecchiaia ed infine la morte costituiscono un climax ascendente. I due dativi “senectae” e “morti” sono entrambi accompagnati da 2 aggettivi che iniziano per “in”: si crea così un ritmo che si ripete.
Non c’è rispetto per gli dei che tenga: nessuna religiosità vale a fermare il corso del tempo!
L’espressione al verso 10 “noi che ci nutriamo del dono della terra” indica “noi mortali”; si ritrova una simile espressione in Omero; egli chiamava i mortali “ gli uomini che mangiano pane”.
Nella seconda e terza strofa del componimento il periodare è più lungo e complesso così come la sintassi.
Il riferimento al mondo divino sottoterra contribuisce poi a dare un tono triste all’ode così come i cipressi “sgraditi” ovvero quegli alberi piantati in prossimità delle tombe, di per sé tristi e scuri.
Orazio spiega che è inutile stare attenti ai diversi pericoli che possiamo incontrare nella vita, il Fato è sempre inevitabile!
Orazio vuole mostrare la propria cultura ed inserisce continui riferimenti al mito greco (vedi note libro). Inoltre non omette mai i riferimenti al mondo Romano, come il vento Austro ed il vino Cecubo (vino campano molto pregiato e protetto poiché sorseggiato solo nelle occasioni importanti).
Il vino assume una funzione diversa rispetto agli altri componimenti: deve essere bevuto subito, prima che venga sprecato, bevuto in scioltezza e versato sul pavimento dai posteri! Si ha quindi una ripresa del Carpe diem ( E’ inutile che conservi i tuoi beni! Non perdere tempo, godi delle cose belle e buone che possiedi!Non pensare al dopo!)
Alla fonte Bandusia (pag 246-247):
Metro: sistema asclepiadeo III
Bandusia è il nome di una Ninfa a cui è dedicata la fonte che secondo alcuni si trovava vicino a Venosa; per altri essa si trovava nella Sabina e precisamente all’interno del podere regalato ad Orazio dall’amico Mecenate. In ogni caso era una fonte cara al poeta.
La fonte è “degna di un vino dolce non senza fiori” ovvero degna di essere celebrata e onorata con libagioni durante le Fontinalia, feste annuali romane proprio in onore di fonti e sorgenti.
Nella vita del capretto ci potranno essere sia l’amore che i combattimenti, o anche i combattimenti per amore (destino teorico); purtroppo però il piccolo animale non farà in tempo a realizzare ciò che dalla vita si aspetta: verrà infatti sacrificato presto, prima del tempo.
La fonte Bandusia è elogiata dal poeta poiché non intaccata dalla calura estiva e non prosciugata; offre abbeveramento agli animali che passano vicino.
L’Ode è dedicata ad una sorgente, ovvero ad un oggetto: questo fatto evoca un’analogia con la poesia alessandrina; era tipico infatti dei poeti alessandrini dedicare i componimenti agli oggetti che erano stati donati così da elogiare il donatore (motivo encomiastico). Nel caso di Orazio non siamo sicuri che la sorgente fosse stata un “oggetto donato”; se così fosse stata però essa si trovava all’interno del podere donato da Mecenate e l’Ode potrebbe essere un elogio a questo.
La descrizione del paesaggio è anch’essa di stile ellenistico: non è evocativa, descrive il paesaggio in se’, non si vuole aggiungere e dire altro. Forse l’ispiratore di Orazio è Teocrito (anche Virgilio gli si era ispirato per la descrizione di paesaggi); in ogni caso l’Ode potrebbe essere ambientata ovunque, la fonte può essere in qualsiasi posto, questo non è specificato.
La parte finale del componimento esprime uno dei principali “motivi orazioni”: la funzione eternatrice della poesia. La poesia infatti rende il soggetto poetico eterno, quando un grande poeta lo elogia. (Forse il termine “loquaces” al penultimo verso , rimanda al canto del poeta).
Orgoglio di poeta (pag. 248-249)
Metro: sistema asclepiadeo I
Questo componimento è il carmen conclusivo che chiude i primi tre libri delle Odi ed ha carattere riassuntivo. Infatti esprime le considerazioni che valgono per l’intera opera. Il “monumentum” citato da Orazio è infatti l’opera stessa. La parola deriva dal verbo “maneo” ovvero “ammonire”: l’opera infatti non sarà unicamente un ricordo ma servirà anche come “monito” ai lettori. Questo “monumento” sembra più forte e duraturo del bronzo col quale erano costruite le statue, ed anche delle piramidi le quali servivano non solo a ricordare i faraoni ma anche ad ammonire gli egiziani.
“Libitina” è un modo latino ricercato per indicare la morte. Era infatti il nome di una divinità degli inferi identificabile con la dea greca Proserpina.
Il ricordo del poeta non morirà grazie alla sua opera. Se leggiamo il componimento in chiave epicurea Orazio morirà sia in anima che in corpo ma il suo spirito rimarrà insidiato nella sua poesia.
Il ricordo del poeta rimarrà per sempre: per esprimere l’eternità del ricordo Orazio inserisce l’esempio della vestale e del pontefice che risalgono il Campidoglio durante una cerimonia; questo è un fatto che si ripeterà per sempre.
L’”ego” che Orazio inserisce al verso sette ha valore enfatico. Esso afferma l’io che sopravviverà e addirittura crescerà nel tempo: l’opera di Orazio sarà eterna ed attuale sempre agli occhi dei lettori. Orazio è esplicito nel lodarsi ma non è il primo (anche Catullo lo faceva).
Il poeta, nato in posti marginali e lontani dalla cultura, è diventato famoso e deve la sua fama all’aver saputo adattare ai metri italici la poesia eolica (è il primo autore della storia che ammette ciò). Il riferimento ad Alceo è quindi esplicito. Ciò che ha dato fama ad Orazio è l’essersi rifatto ai modelli greci nei contenuti (attualità, vino, dimensione evocativa del paesaggio, comunicazione di qualcosa ai lettori ed ascoltatori).
Per questo Orazio è chiamato anche poeta “vate”, anche ridendo riesce a dare degli insegnamenti.
Il verbo “dicar”, “sarò detto”al verso 10, tradotto letteralmente e non come “Si dirà che io..” rafforza ed evidenzia di più il concetto di “io”.
La Musa Melpomene sembra l’ispiratrice del poeta. In realtà Orazio non è convinto di questo ma per tradizione introduce la figura della Musa e la invita a dargli un segno tangibile del suo valore poetico: la corona d’alloro.
Melpomene era la Musa della tragedia e della poesia solenne: la poesia di Orazio pur non essendo tragica è comunque di alto livello: per questo Orazio cita il nome di questa particolare Musa.
“Siamo polvere e ombra” (pag.252)
Metro: sistema archilocheo II
Si tratta di un componimento tratto dal libro numero 4 dei carmina. In questo libro dei carmina, solitamente si trovano in prevalenza temi di carattere civile e politico, questo componimento però si discosta da quelli contenuti in questo libro, infatti si ricollega alle tematiche care ad orazio.
C’è un’attenzione particolare all’alternarsi delle stagioni descritto attraverso elementi reali sia attraverso il mito. Il ciclo delle stagioni corrisponde al passare veloce del tempo; la vita scorre veloce ed quindi è inutile crearsi speranze immortali.
Nell’espressione “pulvis et umbra sumus” viene utilizzato il verbo al presente per indicare un stato destinato a durare nel tempo (cfr.omero-catullo).
I versi 17-18 possono essere ricollegati a postumo (vedi termine “crastina”).
Al verso 23 compare il nome di torquato, al contrario degli altri componimenti letti, questo nome si riferisce a una persona reale, probabilmente un personaggio che apparteneva a una delle gens più importanti di roma.
Compare l’accenno ad una tragedia di Euripide (Ippolito) ai versi finali della poesia, questo è ancora un exempla utilizzato da Orazio per spiegare che dalla morte non si può fuggire.
Nel componimento compaiono tre temi: cogliere la vita-descrizione a carattere mitologico-descrizione del paesaggio (nessun tema/aspetto prevale sull’altro, sono alla pari).
La nave dello stato (pag.256):
Orazio si rifà alla metafora usata nel mondo greco (vedi Alceo) per cui lo stato viene paragonato alla nave.
Il poeta si rivolge direttamente alla nave, che è già reduce da una navigazione, consigliandole di rimanere in porto perché ha già subito gravi danni durante la prima navigazione; una seconda navigazione potrebbe essere, anzi sarà, molto rischiosa.
Il poeta dà un’accurata descrizione della nave e dei danni da “lei” subiti durante la prima navigazione-
Nell’ultima strofa non descrive più la nave, ma si rivolge direttamente allo stato(si intuisce il chiaro riferimento allegorico); infatti il poeta ha vissuto in prima persona la vita politica (che in passato era fonte di ansia e preoccupazione: “tu che mi fosti un giorno ansioso tedio”) ed ora tutto ciò è fonte di nostalgia.
Confronto con il componimento di Alceo (vedi pag.257):
Analogie/affinità: entrambi descrivono una nave in cattive condizioni, una nave malmessa. C’è un chiaro coinvolgimento da parte dell’Io(ma con delle differenze!)
Differenze: Alceo si trova sulla nave durante la tempesta, mentre Orazio è al porto e osserva la nave attraccata. Un’altra differenza è il diverso coinvolgimento dell’io, per Orazio è qualcosa di passato (ora c’è un maggior distacco, o perché è vecchio o perché in questo momento lo stato si trova in un buon momento), per Alceo c’è maggiore coinvolgimento. Altra differenza è il riferimento allegorico (nave-stato) che in Orazio è esplicito (vedi ultimi 4 versi) mentre in Alceo non c’è.
L’esultanza per la morte di Cleopatra pag.258
Metro: strofe alcaica
In questo componimento Orazio fa propri i motivi della propaganda Augustea.
Si sta celebrando la fine della guerra (“bibendum” = bisogna bere; idea della necessità). Nei primi versi c’è un chiaro riferimento ad Alceo (pag.262), ma Orazio è più moderato.
L’espressione “libero piede” (verso1) può voler dire due cose: non c’è pericolo di diventare schiavi o danza sfrenata.
Viene descritta una scena di sacrifici agli dei, celebrazione per la fine della guerra (Salii, antico collegio sacerdotale dedito al dio Marte = Guerra).
“Atto nefando” (verso5), atto non lecito dal punto di vista religioso. Cecubo vino molto pregiato.
Al verso 6 inizia a parlare di Cleopatra che viene descritta come folle di ebbrezza per il potere raggiunto circondata da corteo di Eunuchi, descritti come turbi. A Cleopatra viene riferito “impotens” che ha valore rafforzativo, indica che è molto capace, pronta a tutto. La descrizione della regina continua, ella è ubriaca, dementis, in preda alla follia, al vino ed infine viene descritta come un fatale mostro (= voluto dal desstino o che porta morte).
Propaganda augustea: la battaglia di Azio è stata una vittoria su Cleopatra (barbara folle, ubriaca ecc…) e non su Antonio (sarebbe apparsa come guerra civile).Qui la vittoria appare come quella conseguita su un nemico barbaro, si è sconfitto un regno orientale che voleva dominare Roma.
Ma dal verso 21 Orazio inizia una diversa descrizione della regina, è quasi ammirato. Descrive le doti che avvicinano Cleopatra al coraggio di un uomo. Ella, infatti, non si comporta come un donna avrebbe fatto nella sua stessa situazione, ma fa una scelta da uomo, si toglie la vita, piuttosto di accettare di essere portata a Roma come schiava. Si comporta come una donna del suo rango (viene descritta come “fortis”, lei è forte, non ha paura).
Immagine concreta della reggia abbattuta (verso 26) che indica che il potere di Cleopatra è stato abbattuto.
Importanti le ultime 2 quartine perché mostrano l’atteggiamento di Cleopatra che assume caratteristiche tipicamente maschili.
TEMI E STILE: (pag.188):
Orazio stesso nell’ ”Ars poetica” parla dello stile che il poeta deve adottare. Secondo lui il poeta deve possedere due qualità fondamentali, l’ars (conoscenze tecniche e linguistiche) e l’ingenium (dote naturale- l’ingenio). Attraverso queste 2 qualità si riesce a comporre un opera armonica, ottenuta attraverso un processo di purificazione dagli eccessi e di chiarificazione dell’espressione (Labor Limae).
I caratteri tipici dello stile oraziano sono quindi la limpidezza delle immagini e la chiarezza dell’ espressione (simplicitas). Vi è poi una cura particolare per la costruzione sintattica (callida iunctura). Nei carmina oraziani notiamo inoltre un utilizzo indiscriminato di vari metri lirici tradizionali (es. Alceo).
I temi dei Carmina letti sono la poesia, come strumento per sopravvivere alla morte (exegi monumentom aere perennius) e il ruolo del poeta, cioè di comunicare un messaggio. Una posizione importante occupano l’ amore, inteso come forza passionale, la brevità della vita e lo scorrere inesorabile del tempo (carpe diem); la ricerca del piacere poi è legata a tematiche quali il simposio, la fuga dall’ ansia e l’opposizione tra la giovinezza spensierata e la triste vecchiaia, paragonate al ciclo delle stagioni.

LUCANO

VITA E OPERE (da pag 152 a 157)
Lucano vive durante l’epoca di Nerone e Seneca, di cui è nipote. Lucano nasce in Spagna, si trasferisce successivamente a Roma e viene introdotto negli ambienti della corte dallo zio. Scrive molti testi pur essendo molto giovane e dai titoli delle sue opere si capisce che aderisce completamente alla politica dell’imperatore, predilige le indicazioni dategli dalla corte, infatti predilige il poema epico. Questo genere letterario è molto diffuso nell’epoca imperiale proprio perché è difficilmente sottoponibile a censura poiché tratta solitamente un tema mitico e lontano dalla storia contemporanea. Tra Lucano e Nerone inizialmente si instaura un rapporto di amicizia e apprezzamento soprattutto da parte dell’imperatore verso lo scrittore. Tuttavia questo rapporto va deteriorandosi, per due motivi principali:
× Rivalità letteraria, di conseguenza Nerone lo accusa di aver partecipato alla congiura dei Pisoni e quindi viene indotto al suicidio;
× Rivalità politica, Lucano avrebbe tentato un distacco dalla politica dell’imperatore e avrebbe realmente preso parte alla congiura contro di lui.
La sua opera più celebre è il Bellum Civile o Pharsalia, si tratta di un poema epico. Lucano mantiene come punto di riferimento l’Eneide di Virgilio, che è ritenuta un modello classico, ma ne prende anche le distanza differenziando il suo poema in alcuni punti:
× Il contenuto è storico, parla degli eventi che hanno portato alla fine della repubblica e l’inizio del principato, scelta che avrebbe potuto portare la censura.
× il numero dei libri è 10, un numero insolito per il genere epico, in cui si utilizzavano i multipli di 6 (es: Eneide 12 libri). Alcuni dicono che sia dovuto al fatto che non abbia fatto in tempo a finire l’opera a causa del suicidio indotto, secondo altri non si può dire che manchino esattamente 2 libri.
× lo stile è quello tipico dell’età giulio-claudia ovvero la spezzettatura all’interno delle frasi (simbolo del disagio per l’epoca in cui si vive), il barocchismo e il gusto per il macabro, che si può ritrovare anche nelle tragedie di Seneca.
× intento dell’opera non è come quello dell’Eneide, ovvero celebrativo nei confronti della grandezza di Roma. in questo poema è presente la guerra civile come avvisaglia di una nuova era caratterizzata dall’assenza di pace e libertà.
× viene a mancare il tipico eroe epico. In questo poema si presenta l’anti-eroe, non si trova il “buono”, ci sono personaggi che potrebbero diventare buoni (Pompeo e Catone) ma emergono come personaggi privi delle tipiche caratteristiche di un eroe. Pompeo potrebbe essere un eroe perché è colui che presenta il minor numero di caratteristiche negative, ma tuttavia non riesce a realizzarsi come tale. Catone pur essendo mosso da motivazioni nobili viene presentato come indeciso ed esitante; non viene presentato nessun eroe in cui possano confluire gli ideali dell’autore. Cesare invece è presentato come il “cattivo”.

“DIGRESSIONE PRESENTE NEL BELLUM CIVILE" (pag.157)

Questa è una digressione inserita dall’autore nel corso del racconto per mostrare le sue capacità letterarie, ma è considerata come una pagina a se stante. Si può notare il gusto barocco e per il macabro tipici di Lucano.

POMPEO E CESARE (pag. 163)

Viene presentata la contrapposizione tra il cattivo e un possibile buono. Pompeo viene paragonato a una quercia, simbolo della gloria passata, oggetto di venerazione per le azioni compiute in passato. Inoltre si allude al fatto che Pompeo non partecipi ad una guerra da molto tempo. Cesare invece è nel momento del suo massimo splendore ed è mosso da una brama di dominio. Viene paragonato ad un fulmine, simbolo della potenza e non importa dove colpisce, purché riesca ad affermare il suo potere.

CATONE E BRUTO (pag. 167)

Qui viene presentato il discordo di Catone rivolto a Bruto, questo discorso è presentato in risposta ai consigli chiesti da Bruto allo stesso Catone. Questi due personaggi sarebbero i potenziali buoni ma entrambi celano lati oscuri. Bruto propende per la neutralità e propone questa soluzione anche a Catone, il quale risponde dicendo che le guerre civili sono un abominio ma non può fare il semplice spettatore. Con il suo discorso Catone riesce a smuovere Bruto e a farlo tendere per la guerra civile.


ETA' FLAVIA (imperatori: Vespasiano-Tito-Domiziano) [da pag. 158 a 160]:

In questa età non c’è nessun tipo di libertà e non c’è il sostegno di diffondere e sostenere i valori tipici dell’età repubblicana, vige un solo un tipo di potere, quello dell’imperatore ed è per questo motivo che chi scrive sceglie di scrivere sotto il consenso e l’approvazione dell’imperatore. La forma più alta di espressione artistica in questo periodo è l’emulatio (Quinquiliano) che però molto spesso finisce per diventare semplice e banale imitazione. Gli scrittori sono spesso funzionari pubblici e provengono da ceti medio-bassi. Gli autori non si posso più dedicare a tempo pieno alla letteratura perché essa non è più sostenuta e finanziata dagli imperatori, per questo motivo che gli scrittori si ritrovano a dover ricorrere ad altri lavori. La letteratura e la poesia latina, in questo periodo, non acquisiscono nulla di innovativo.
I due principali autori di questo periodo per quanto riguarda il genere epico sono:
1. Valerio Flacco
2. Silio Italico

VALERIO FLACCO


Scrive “ARGONAUTICHE” poema epico che si rifà al modello greco di Apollonio Rodio in età ellenistica. Si narrano le vicende di Giasone e il suo viaggio alla ricerca del vello d’oro. è un poema epico in esametri, è diviso in 8 libri. Nell’opera non ricorre più l’eroe omerico, Giasone è obbligato a viaggiare, contro la sua volontà, è scarsamente motivato ed è caratterizzato da dubbi ed incertezze, al contrario dei poemi epici tradizionali acquista importanza la figura femminile (Medea).

MEDEA ADDORMENTA IL DRAGO (pag.175)

All’interno del mito di Giasone e Medea vengono inseriti altri miti poco conosciuti dal pubblico (Ino e Endimone), ciò è tipico dei poeti alessandrini. Al verso 10 si trova l’espressione “eroe assillato dall’ansia” insolito per quanto riguarda la caratterizzazione di un eroe. Le parole utilizzate da Giasone nei confronti di Medea servono ad avere un maggiore aiuto da parte della donna. Dal verso 34 al verso 45 ricorrono i famosi giuramenti che la Medea di Euripide rievoca (ovviamente l’opera di Euripide è antecedente a quella di Flacco). Dal verso 62 in poi si vede Medea in azione come maga nel pieno delle sue forze, invoca il Sonno, parla e poi addormenta il drago ecc… Ciò che emerge di significativo nel poema di Flacco è il “nuovo” modo in cui si descrive il modello femminile. C’è una trasformazione del personaggio femminile che passa da ragazza giovane che si innamora di Giasone a donna e maga che pur di seguire Giasone mette in pratica tutti i suoi saperi anche quelli magici.
SILIO ITALICO:
Scrive poema epico intitolato “Punica” in cui si racconta la seconda guerra punica. Si tratta di un tema storico ma lontano nel tempo (diverso da Lucano). Ripercorre la nascita dell’avversione tra Roma e Cartagine e di conseguenza narra la grandezza di Roma. Silio si avvicina alle prime forme di epica romana: Mevio.
Annibale strumento dell’ira di Giunone (pag, 179)
Prima di questo passo c’è il proemio con l’invocazione alla Musa. Nel primo paragrafo riassume in pochi versi le vicende a partire dall’origine di Cartagine (Didone) fino ad arrivare alla fine della prima guerra punica. Nel secondo paragrafo viene presentato il discorso di Giunone ad Annibale in cui riassume la seconda guerra punica, con questo discorso inoltre si dà una legittimazione divina all’operato di Annibale. Appena il discorso finisce si presenta Annibale come giovane guerriero abile e astuto ma lontano dalla strada della giustizia, infatti i cartaginesi erano caratterizzati dai romani come feroci. Inoltre in questo passo emerge il modo tipico di presentare il nemico romano, come valoroso, forte ecc… in modo da rendere la vittoria ancora più importante.


ETA’ GIULIO-CLAUDIA:
(Modulo 1 libro 3)

Con la morte di Augusto il potere imperiale inizia ad essere trasmesso per discendenza o per via violenta.Tacito, autore successivo dell’età Flavia, ripercorrerà la storia di Roma soffermandosi su alcune particolari fasi dell’impero come quella di Nerone e di Caligola. Essi avevano escluso il Senato dal potere chiedendo l’appoggio popolare: per questo vennero definiti da Tacito pazzi. Caligola era simile ai sovrani orientali e teneva lontano dal potere le altre istituzioni: di conseguenza si disse anche che la sua pazzia lo portò a nominare senatore il proprio cavallo; ciò dimostra quanto il Senato fosse da lui sottovalutato e tenuto lontano dal suo orizzonte politico. L’imperatore Claudio poi, affidò addirittura a liberti i compiti più importanti dell’amministrazione statale. L’età Claudia termina con Nerone; essa fu caratterizzata dall’accentuarsi dell’interesse culturale degli imperatori e dal maggiore controllo diretto o indiretto dell’imperatore sulla cultura stessa: molte opere furono messe al rogo, molti autori condannati a morte, la censura diventò pericolosa per i letterati. L’imperatore era una presenza forte all’interno della cultura anche se a volte non esplicitava i propri gusti personali (Nerone).

SENECA:

SENECA Indotto al suicidio, era un letterato che riuscì ad adeguarsi all’imperatore ma che poi se ne allontanò e pagò per questo con la morte.
EPISTULAE MORALES AD LUCILIUM (pag. 108):
Lucilio era un giovane politico, inesperto discepolo di Seneca, a cui Seneca funge da precettore. Seneca non si considera un uomo alle vette dello stoicismo bensì se ne trova ancora sulla strada; è comunque più avanti negli studi rispetto a Lucilio. Le epistole che scrive non hanno nulla a che vedere con quelle di Cicerone (egli scriveva a destinatari noti delle lettere reali, raccontava di episodi accaduti davvero; le sue lettere avevano una funzione informativa per l’interlocutore e nascevano da esigenze reali). Per Seneca non è così; le sue lettere infatti hanno comunque un destinatario e fanno riferimento alla vita reale ma trattano soprattutto di argomenti filosofici e morali che riguardano le condizioni dell’uomo nel tempo in cui è collocato; questo genere di epistole forse non sono quindi pensate per essere necessariamente inviate ma piuttosto pubblicate.Si dice che le epistole di Epicuro siano il precedente greco di quelle di Seneca. Seneca è uno stoico ma fa riferimento anche all’epicureismo quando gli sembra utile ed attinge alla fonte epicurea. Egli si sente come una sentinella che va ne campo nemico (epicureismo) e cerca ciò che gli sembra utile per il suo accampamento.Lo stile delle epistole è caratterizzato quasi sempre da una brevità essenziale; si fanno molti riferimenti alle immagini concrete della vita quotidiana e quindi è utilizzato un linguaggio che tutti i lettori sono in grado di recepire (escludendo schiavi ed analfabeti).Seneca non si rivolge più solo ai politici (gruppo stretto intorno all’imperatore) ma anche a persone che costituiscono la fascia popolare degli ex funzionari pubblici: l’autore li vuole rendere più consapevoli poiché la realtà in cui vivono non li soddisfa. Bisogna quindi trovare altri modi per vivere bene e soddisfarsi, nuovi modi per passare il tempo e riscoprire la propria identità, riconciliandosi con sé stessi e ritrovando serenità e tranquillità. Spesso infatti gli ex dipendenti dello Stato erano depressi perché non potevano più occuparsi della vita pubblica. La loro possibilità di parteciparvi si restringe sempre di più durante l’età Giulio-Claudia; non c’è più libertà di espressione e di partecipazione alla vita politica, a differenza dell’età repubblicana.
SII PADRONE DEL TUO TEMPO (pag. 109-111 libro 3):
Seneca saluta il suo Lucilio.1. Fai così o mio Lucilio: rivendica a te stesso, e trattieni e conserva il tempo che fino ad adesso o ti era sottratto, o rubato, o fuggiva. Convinciti che le cose stanno così come scrivo: un po’ di tempo ci viene strappato, un po’ ci viene portato via e un po’ sfugge. Tuttavia la perdita più sconveniente è quella che avviene per negligenza. E se vorrai fare attenzione, una grande parte della vita sfugge nell’agir male, la parte più consistente non facendo niente, e tutta la vita facendo altro.2. Chi mi troverai che ponga un qualche prezzo al tempo, che calcoli il giorno, che capisca di morire ogni giorno? In questo infatti sbagliamo, cioè che proiettiamo in avanti la morte: una gran parte di questa è già passata; tutto il tempo che è alle spalle è dominio della morte. Fai dunque, o mio Lucilio, ciò che stai facendo, e tieni strette tutte le ore; così accadrà che tu dipenda meno dal domani, se afferrerai l’oggi. Mentre si rimanda, la vita trascorre.3. Tutto, Lucilio, è estraneo, soltanto il tempo è nostro; la natura ci ha dato il possesso di questa sola cosa fugace e fuggevole, da cui allontana chiunque vuole (essere allontanato). E la stoltezza dei mortali è così grande che sopportano che siano imputate loro le cose che sono piccolissime e di pochissimo conto, certamente alle quali c’è rimedio, quando le hanno ottenute, mentre nessuno che ha ricevuto il tempo ritiene di essere debitore di alcunché, quando questo è l’unico bene che neppure colui che è grato può restituire.4. Tu chiederai forse che cosa faccia io che ti do questi insegnamenti. Te lo dirò sinceramente: ciò che avviene a un amante del lusso ma scrupoloso, tengo il controllo delle spese. Non posso dire di non perderne, ma dirò che cosa perderò e perché e in quale modo; e renderò conto della mia povertà (di tempo). Ma a me capita ciò che capita alla maggior parte di coloro che sono ridotti in povertà non per colpa loro: tutti li perdonano, nessuno li aiuta.5. E allora? Non credo povero colui per cui è sufficiente quel poco che gli rimane; tuttavia preferisco che tu mantenga i tuoi beni e che tu cominci a farlo ora che è il momento giusto. Infatti, come dicevano i nostri antenati: “L’oculatezza tardiva è sul fondo” (è inutile); infatti non rimane soltanto pochissimo sul fondo ma la parte peggiore. Addio.
COMMENTOPARTE PRIMA
Questo brano, il primo dell’opera, non ha una funzione premiale anche se in esso troviamo elementi di continuità con il resto dell’opera.L’esordio è in Medias Res, non c’è un’introduzione, sembra che Seneca stia rispondendo ad una domanda dell’interlocutore che chiede come ci si debba rapportare con il tempo. Seneca dice di “essere padroni si sé stessi” ovvero di mettere al centro della propria vita e del proprio tempo la propria persona. La colpa del passare del tempo o è una sua caratteristica o è colpa degli altri. Per godere del tempo che ci è dato dobbiamo utilizzarlo al meglio per noi stessi (si rivolge ai disoccupati).Tra le prime due frasi abbiamo sei verbi quasi sinonimi; questa ripetizione è tipica del maestro che vuole far apprendere bene il concetto agli alunni.La negligenza per Seneca è l’assenza di attività, la passività, il dedicarsi a cose poco importanti.
PARTE SECONDA
Seneca si chiede se ci sia qualcuno che tenga di conto il tempo; esso infatti è come una clessidra: ogni granello che cade è un passo verso la morte.“Mentre si rimanda, la vita trascorre”: si tratta di una “sententia”. Le “sententiae” sono frasi che hanno un senso pieno anche se estrapolate dal contesto in cui sono inserite. Seneca è un filosofo che si occupa della vita dell’uomo; fornisce infatti indicazioni, consigli e risposte per la vita quotidiana dei lettori affinché essi riescano a dare un senso alla propria vita.
PARTE TERZA
La natura priva del possesso del tempo solo che ne vuole essere privato.Chi ha ricevuto il tempo non ritiene di essere il debitore di niente e nessuno.Molti danno peso alle cose di poco conto e non al tempo, il quale non potrà essere restituito. Gli uomini non si danno pensiero di perdere tempo.L’ultimo periodo di questa parte è molto lungo e articolato all’interno; strano per Seneca!PARTE QUARTASeneca spiega qual è il suo comportamento: egli usa il tempo consapevolmente e conosce bene quanto e come lo perde.

DIO E' NEL PROFONDO DELL'UOMO(pag. 120-123 libro 3):
Seneca saluta il suo Lucilio.Fai una cosa ottima e vantaggiosa per te se, come scrivi, perseveri a indirizzarti verso la saggezza, che è cosa stolta desiderare dato che puoi ottenerla da te stesso. Le mani non sono da tendere al cielo ne’ bisogna pregare il custode del tempio di lasciarci avvicinare all’orecchio della statua come se potessimo essere ascoltati di più: dio è vicino a te, è con te, è dentro di te. Così dico, o Lucilio: dentro di noi risiede uno spirito sacro, osservatore e custode dei nostri mali e beni; lo stesso dunque tratta noi a seconda di come esso è trattato da noi. Nessuno è un uomo buono veramente senza dio: ed è possibile che qualcuno si innalzi sopra alla sorte senza l’aiuto di quello? Lui da consigli grandi e nobili. In qualunque degli uomini buoni abita un dio, un dio che è incerto (grassetto = esametro di Virgilio). Se ti si presenterà un bosco fitto di alberi antichi e più alti del consueto e che copre la vista del cielo con il protendere i rami che si coprono gli uni gli altri, quell’altezza del bosco, l’isolamento del luogo e la meraviglia data dall’ombra così fitta in uno spazio aperto ed ininterrotta, ti spingeranno a credere in una divinità. Se una grotta sosterrà un monte con le sue rocce profondamente erose, non fatta dall’uomo, non scavata da cause naturali fino a così grande profondità, toccherà il tuo animo con il sospetto di una qualche presenza divina. Noi veneriamo le sorgenti dei grandi fiumi; l’improvviso sgorgare dal profondo della terra di un ampio corso d’acqua ha altari, le fonti di acqua calda sono oggetto di culto, sia il colore cupo sia la grande profondità hanno reso sacri alcuni laghi. Se vedrai un uomo coraggioso nei pericoli, puro dalle passioni, felice nell’avversità, calmo in mezzo agli sconvolgimenti, che guarda gli uomini dall’alto, gli dei allo stesso livello, non si insinuerà in te una venerazione per lui? Non dirai: “Questa cosa è troppo grande ed elevata perché possa essere ritenuta simile a questo piccolo corpo in cui si trova?” Una forza divina discende in questo; una potenza celeste muove l’animo superiore, equilibrato, che oltrepassa ogni cosa come se fosse di poco conto, che ride di ciò che temiamo e desideriamo. Una cosa così grande non può esistere senza il sostegno di un Nume; e così con la parte più grande di sè è lì da dove arriva. Come i raggi del Sole toccano sì la terra, ma sono là da dove sono emessi, così l’animo grande e sacro, mandato per questo, affinché conosciamo di più le cose divine, si trova sì con noi, ma resta saldo alla sua origine; da là si propaga, là guarda e verso là tende, partecipa alle nostre vicende come se fosse migliore. Che cos’è dunque questo animo? Ciò che non risplende di nessun bene se non del proprio. Che cos’è infatti più stolto del lodare nell’uomo ciò che gli è estraneo? Cosa è più insensato di colui che ammira le cose che possono passare ad un altro facilmente? Le briglie d’oro non rendono migliore il cavallo (...). Loda in quell’uomo ciò che non si può sottrarre ne’ dar, ciò che è proprio dell’uomo. Mi chiedi che cosa sia? E’ l’animo e la ragione completa dell’animo. Infatti l’uomo è un animale razionale; e così il suo bene viene portato a perfezione se compie ciò per cui nasce. Cos’è ciò che da lui esige questa ragione? Una cosa facilissima, vivere secondo la propria natura. Ma la pazzia comune rende ciò difficile: l’un l’altro ci spingiamo nei vizi. In che modo possono essere richiamati alla salvezza coloro che nessuno trattiene e che la massa respinge? Addio.
 COMMENTOPARTE PRIMA
La saggezza non è esterna ma è già dentro di noi.Seneca immagina di rispondere a Lucilio che gli aveva probabilmente chiesto: “faccio bene ad aspirare alla saggezza?”
PARTE SECONDA
La divinità che si identifica con il Logos è qualcosa di esterno che comprende tutto quanto ma è nel contempo proiettato dentro ciascuno di noi.Per giungere alla saggezza non dobbiamo supplicare nessuno perché il dio ce l’abbiamo già dentro di noi.Seneca utilizza delle Variatio come: prope + tecum + intus : il primo ed il terzo sono avverbi mentre il secondo è un aggettivo.Sacer - spiritus – sedet costituiscono una figura retorica di consonanza (s).Se ascoltiamo la nostra componente divina riusciamo addirittura ad andare al di sopra del fato a noi predestinato.
PARTE TERZA
Uno spettacolo così non può che essere frutto di una azione divina!La frase è molto lunga per enfatizzare il concetto.Vi è una serie di periodi ipotetici della realtà.Gli esempi prima sono pochi e lunghi, poi diventano tanti e brevi.Bisogna avere fede nella possibilità dell’esistenza di una potenza divina.PARTE QUARTA:Si parla dell’uomo saggio. Seneca enuncia la consapevolezza della possibilità del raggiungimento della saggezza: bisogna però dare spazio alla scintilla del Logos dentro ad ognuno.PARTE QUINTA:E’ presentata una descrizione delle nostre potenzialità divine. Il saggio le sa rendere attuali.L’anima deriva dalla grande anima universale (Logos intero) da cui si staccano le particole: ciò dimostra che l’anima dell’uomo non può esistere così bene se non ci fosse qualcosa di divino che la presiede al suo interno. Come il sole resta attaccato ai suoi raggi, il divino rimane comunque attaccato a ciò che propaga da sé.PARTE SETTIMA:Tutti siamo presi da questo vortice di vizi: ci si tira l’uno con l’altro. Seneca è avverso alla folla, che considera appunto viziosa.

IL PRINCIPE E IL SAPIENTE ( italiano, pag. 135-136 libro 3)Chi si occupa di politica guarda sempre ad ambizioni più alte che lo spingono a voler affermarsi e a volere ancora di più. Il sapiente è invece colui che è tranquillo, come lo stesso Seneca, che scrive le lettere quando si è già distaccato dalla vita politica dello Stato.


GIUSTIZIA E CLEMENZA,LE DOTI DI UN BUON PRINCIPE (pag. 130-132 libro 3):
Ho deciso di scrivere il “De Clementia”, o Nerone Cesare, per servire in qualche modo da specchio e per mostrarti che tu giungerai al piacere più grande di tutti. Infatti, sebbene il vero frutto delle azioni compiute correttamente sia l’averle fatte e benché nessuna ricompensa delle virtù e degna di queste sia al di fuori di queste, giova guardare e ispezionare la buona coscienza, e anche mandare gli occhi verso questa immensa moltitudine discorde, sediziosa, sfrenata, pronta a esultare per la rovina degli altri e in egual modo per la sua, se romperà questo giogo, e così parlare tra sé e sé: “Sono stato io preferito e scelto tra tutti i mortali, per svolgere il ruolo degli dei sulla terra? Io sono arbitro della vita e della morte dei popoli; quale sorte o condizione abbia ciascuno, è nella mia mano; che cosa la sorte voglia che sia dato a ciascuno dei mortali, lo pronuncia per mio tramite; i popoli e le città traggono i motivi del benessere del nostro responso; nessun luogo gode di benessere senza il mio volere e la mia volontà: queste molte migliaia di spade, che la mia pace tiene ferme, al mio cenno saranno impugnate; dipende da me quali popoli sia necessario si debba distruggere completamente, quali deportare, a quali dare la libertà, a quali toglierla, quali re è opportuno che diventino schiavi e sulla testa di quali è opportuno mettere la corona, quali città debbano andare in rovina, quali nascano. In questo così grande potere né l’ira, né l’impeto giovanile, né il coraggio degli uomini, né l’ostinazione, che spesso fa perdere la pazienza anche agli uomini più tranquilli, mi spinsero a infliggere ingiusti supplizi, e nemmeno la gloria stessa, spaventosa nel mostrare la potenza attraverso il terrore, ma frequente nei grandi comandi. La spada è riposta anzi, legata vicino a me, è totale anche il risparmio del sangue più spregevole; nessuno, a cui mancano altre cose ma abbia il nome di uomo, non sia ben accetto presso di me. Ho la severità nascosta ma la clemenza a disposizione. Così mi proteggo, come se dovessi render conto alle leggi che ho chiamato alla luce dal torpore e dalle tenebre. Sono stato mosso dalla giovinezza di uno, dalla vecchiaia dell’altro; ho donato ad uno per il prestigio, a un altro per la umiltà; quanto non trovai nessun motivo di misericordia, ebbi pietà di me stesso. Oggi sono pronto, se gli dei mi chiedessero il conto, ad enumerare il genere umano.
 COMMENTO:
Il “De Clementia” è stato scritto:<!--[if !supportLists]-->- <!--[endif]-->O mentre Seneca lavorava ancora per Nerone. In questo caso l’autore mette in luce le virtù che in princeps doveva esercitare nei confronti dei sudditi. Il princeps è assimilato al buon “pater familiare” che deve essere generoso e pietoso ma nel contempo arbitro della vita e della morte di chi dipende da lui; è concessione del princeps togliere le facoltà ai propri sudditi (governo paternalistico).<!--[if !supportLists]-->- <!--[endif]-->O dopo l’uscita di Seneca dalla vita politica. In questo caso l’opera va vista come un monito a ciò che Nerone non ha fatto, quindi come critica al suo governo (è stato clemente ma solo in senso paternalistico).
PARTE SECONDA:
E’ prevalente l’interpretazione del testo scritto dopo l’uscita dalla vita politica.La concezione del sovrano sembra di tipo assolutistico.I re e i popoli sono assoggettati a Roma e vengono indicate le azioni che il buon principe per loro grazie al suo arbitrio.Vi sono rime e molte frasi brevi; alla fine però né scaturisce una frase molto articolata.Tutto è prerogativa del principe nelle situazioni di conquista, non si parla di Consigli come il Senato.
PARTE TERZA:
Nonostante un potere così grande il principe non si è mai lasciato trascinare nel dare pene ingiuste, abusando di questo grande potere. Egli non si è macchiato di tutti quei difetti che hanno di solito i sovrani (forse Nerone si era macchiato di questi difetti, se seguiamo la seconda interpretazione del brano).Il principe si astiene a spargere il sangue, anche della persona più vile di tutte.Seneca è portatore del valore dell’Humanitas i quali ideali Nerone probabilmente non portava avanti.
PARTE QUARTA
“procintu”= pronto a combattere, è un vocabolo preso dal linguaggio militare.Il princeps deve essere severo ma in primo luogo clemente.Le leggi di cui parla erano probabilmente rimaste nascoste per lungo tempo. Seneca sta volutamente esagerando o per una “captatio benevolentiae” dell’imperatore o per criticarlo abbondantemente.Vi è una specie di autocensura dell’autore, per salvarsi la pelle e soprattutto per sottostare alle preferenze del sovrano; gli argomenti e gli esempi sono riferiti all’antichità in modo che non interferiscano con i sentimenti del princeps attuale,Ricorda: comparativo + quam ut + congiuntivo = “troppo…(agg.).. per…(verbo)..”


OTIUM E NEGOTIUM (italiano- pag. 150 libro 3):

PRIMA PARTE: Le ricompense e ricchezze che ricevono i funzionari pubblici sono disprezzate.Praticare il Negotium ci mette in una condizione miseranda; non si riesce a distaccarsi dai propri beni, onori e vanità. E’ come essere sottoposti a schiavitù e tanti sono quelli che ne sono sottoposti e se la tengono cara.SECONDA PARTE:Tema del tempo: pensiamo di avere un tempo illimitato per fare le cose e continuiamo a rimandarle.Paura della morte: essa ci porta a peggiorare. Invece dovremmo arrivare alla fine della vita come lo eravamo all’inizio di questa, senza nessun male e nessuna colpa.


QUINTILIANO PARLA DI SENECA (italiano-pag 145):
-          Seneca aveva anche una produzione scientifica (sintetizza le concezioni antiche riguardi i fenomeni di cui vuole trattare) a quei tempi però la trattatistica era solo di tipo compilatorio.-          Per la tragedia si rifà al mito greco per gli argomenti. Non si sa datare la produzione tragica di Seneca:O durante il governo di Nerone. In questo caso anche le tragedie sono parte dell’insegnamento per il princeps. Si parla delle conseguenze nefaste derivanti dal lasciarsi prendere dalle passioni che avrebbero effetti deleteri sul principe. O dopo aver lavorato per Nerone. In questo caso le nefaste conseguenze sarebbero quelle in cui è incorso il princeps stesso. -          le tragedie vennero scritte per poi essere rappresentate o soltanto per essere lette? Non si sa. In quel periodo avevano preso piede le “recitationes” ovvero davanti a un pubblico ampio ed anche popolare si leggevano opere o brani che dovevano servire come spunto per un dibattito seguente. Di ciò si occupavano gli oratori e gli scrittori tra i quali forse anche Seneca.. -          C’è chi dice che le tragedie di Seneca non vennero mai rappresentate perché in esse erano presenti scene di morte che non potevano, secondo la tradizione e la convenzione, essere presentate visivamente agli spettatori. Inoltre chi sostiene questa tesi fa notare che nelle tragedie di seneca si esce dall’unità di tempo, si descrivono eventi che non si svolgono nell’arco di uno o pochi giorni, ma in molto più tempo: questo rendeva irrealizzabile la rappresentazione della tragedia.-          C’è chi invece sostiene che le tragedie di Seneca vennero rappresentate: d’altronde, dicono, chi dice che a Roma non si potesse nel I secolo d.C. rappresentare scene di morte??-          Quintiliano è critico nei confronti di Seneca: lo ritiene poco accurato nella filosofia poiché sembra non avere mai posizioni definitive. Inoltre lo stile è considerato corrotto ( Quintiliano è sostenitore di Cicerone e scriverà in un modo simile a quello di Cicerone; nonostante questo nel suo modo di scrivere si intuisce che Seneca lo ha influenzato inevitabilmente, avendolo letto e studiato anche il critico Quintiliano è stato influenzato dal predecessore.) -          Lo stile di Seneca, dice Quintiliano, è caratterizzato da “difetti attraenti” come l’omettere, il sottintendere ecc. Questo modo di scrivere piace, fa presa soprattutto sui ragazzi e non sugli uomini di cultura; il consiglio di Quintiliano è: va bene leggere Seneca per i colti che “sanno come prenderlo” ma non per i ragazzi e i giovani che ne verrebbero influenzati troppo.



DE OTIO "IL SAGGIO SA GIOVARE AGLI ALTRI ANCHE NELLA VITA RITIRATA 
(pag.136-137 2.)
Le due scuole degli epicurei e degli stoici sono in grandissimo disaccordo anche su queste cose ma entrambe anche se per vie diverse indirizzano all’inattività. Epicuro dice: “il sapiente non arriverà alla politica a meno che non succeda qualcosa”; Zenone dice: “accederà alla vita pubblica a meno che non ci sia qualcosa che lo impedisca”. 3. L’uno cerca di proposito l’inattività, l’altro per un motivo. Ma quel motivo ha un vasto campo di applicazione: se lo stato è troppo corrotto per poter essere aiutato, se (lo stato) controllato da malvagi, il saggio non si adopererà inutilmente e non si impegnerà sapendo che non potrà giovare in niente; se avrà poca autorità o forza e lo stato non avrà intenzione di accoglierlo, se la salute glielo impedirà come non metterebbe in acqua una nave distrutta, come un malato non si arruolerebbe così non intraprenderà un percorso che sa essere impraticabile. 4. Anche colui che ha ancora tutto in suo potere, ancora prima di provare una qualche tempesta può rimanere al sicuro e affidarsi completamente alle virtù e reclamare un’inattività intatta, fautore delle virtù che possono essere esercitate anche delle persone più tranquille (che si sono dedicate completamente all’inattività). 5. Proprio questo è richiesto all’uomo, cioè che porti beneficio agli uomini; se è possibile (giova) a molti, se no a pochi, se no ai più vicini, se no a se stesso. Infatti quando rende se stesso utile a tutti gli altri, agisce nel bene comune: come colui che si rende peggiore non solo nuoce a se stesso ma anche a tutti quelli a cui avrebbe potuto giovare se fosse diventato migliore, così chi si comporta bene con se stesso giova agli altri proprio in questo poiché prepara un uomo che gioverà agli altri. 1. Abbracciamo con l’animo le due repubbliche: l’una grande e davvero pubblica nella quale sono compresi dei e uomini, nella quale non guardiamo questo o quell’angolo, ma limitiamo con il sole i confini del nostro stato; l’altra (è quella) a cui ci assegnò la condizione di nascita (questa sarà o degli Ateniesi o dei Cartaginesi o di una qualunque altra città), che interessa non a tutti gli uomini, ma solo ad alcuni. Alcuni allo stesso tempo si occupano di entrambe le repubbliche, di quella maggiore e di quella minore; alcuni sono della minore altri della maggiore. 2. Possiamo servire questa repubblica più grande anche nell’inattività, anzi a dire il vero non so se (la possiamo servire) meglio nell’inattività, in modo da ricavare che cosa sia la virtù, se sia una sola o se siano molte, se la natura o l’arte renda buoni gli uomini.
COMMENTO:
 Il De Otio si colloca negli ultimi anni della produzione di Seneca. È dedicato all’amico Sereno il quale appartiene ai ceti alti e che un tempo, come lo stesso Seneca, faceva parte della vita pubblica. Sereno si rivolge all’amico Seneca per chiedergli aiuto dato che ora la maggior parte della sua vita è dedicata all’otio (inattività). Ora lui ah una funzione nella vita pubblica di tipo passivo, ovvero come guida dei suoi simili. Questa “risposta” è una spiegazione che può valere per chiunque si trova nella situazione di Seneca o Sereno. PARTE 3.2 Entrambe queste scuole nascono per rispondere a una domanda comune nata durante il periodo ellenista: cosa fare dato che non ci si può più occupare della vita pubblica? Entrambe le scuole prevedono un arrivo comune incentrate sull’uomo e sul cammino che compie, che risulta diverso per le due scuole di pensiero. Epicuro dice che si può da subito ad astenersi dalla vita politica, mentre Zenone dice che bisogna partecipare alla vita polita a meno che qualcosa non lo impedisca. PARTE 3.3 I motivi per cui uno stoico deve ritirarsi dalla vita pubblica sono: × Lo stato è corrotto e controllato da malvagi; × Il saggio non è in grado di guidare lo stato; × Qualcuno impedisce al saggio di guidare lo stato; × Il saggio è malato. PARTE 3.4 Tuttavia anche chi non è stato colpito da una “tempesta”, ovvero che non è stato colpito da uno dei motivi sopra elencati ed ha ancora tutte le sue forze, può dedicarsi alla virtù. L’otio non è un ripiego alla vita pubblica ma può essere una scelta e un punto d’inizio. PARTE 3.5 Chi è utile a se stesso inevitabilmente gioverà meglio anche agli altri e migliorando se stesso migliorerà anche gli altri. Questa è la risposta al fatto che si possa in partenza scegliere l’otio perché risulta una scelta che migliora se stessi e gli altri. Non è una scelta contemplata dallo stoicismo romano, ma è una scelta dettata dalla propria situazione personale, Seneca è partito dalla corte di Nerone ma ciò non ha giovato a nessuno. PARTE 4.1 La repubblica più piccola si identifica con lo Stato, mentre è visibile una visione cosmopolita tipica del mondo greco in cui la patria è il mondo (patria che abbraccia tutti i popoli, gli dei, il cielo ecc…) Il compito primo dell’uomo è quello di giovare prima a tutti gli uomini e poi solo ad alcuni. PARTE 4.2 Dedicarsi all’inattività, e solo a questa, non aiuta solo lo stato in cui si è nati ma anche la repubblica “mondiale".


PETRONIO:
( pag. 230-239)


 Si dice che il “Satyrikon” venne scritto da Petronius Arbiter; di egli non si sa nulla poiché non è noto per altre cose. Di lui ci parla Tacito (pag. 230): egli viveva alla corte di Nerone ed era un consigliere di immagine dell’imperatore (lo consigliava riguardo l’organizzazione di feste, banchetti, abiti ecc..). Il testo che Petronio scrisse risalirebbe infatti all’epoca di Nerone (vi sono trattati temi che possono rimandare all’età neroniana quali un poemetto sulla distruzione di Troia e un dibattito sulla crisi dell’eloquenza e della letteratura).I più però identificano il “Satyrikon” come un romanzo in cui si trova una commistione di prosa e versi. Esso troverebbe quindi un antecedente nella “fabula Menippea” dell’età ellenistica e una fonte di ispirazione nella “fabula Milesia” (di Mileto, si trattava di un racconto “sporco”, di carattere licenzioso, di cui abbiamo un esempio anche nel “Satirikon” di Petronio.Il nome dato all’opera poi ci farebbe pensare ad una vera e propria Satira ovvero un racconto di tipo umoristico capace però di far riflettere; in realtà il “Satyrikon” prenderebbe il nome da un piatto ricco e variegato che i supplici offrivano in età antica agli dei.Il “Satyrikon” è il primo esempio di romanzo latino che trova un antecedente nel romanzo greco.Il romanzo greco non si sa quando nacque, forse in età ellenistica, anche se prima si faceva risalire solo al I secolo d.C. in corrispondenza non l’età imperiale di Nerone. Il romanzo greco era un genere letterario popolare, mirava ad un destinatario ampio e non avanzato nella scolarizzazione anche se comunque in età ellenistica molta gente sapeva già leggere e scrivere. Si trattava di una letteratura di evasione, che serviva a far divertire il pubblico. Si creavano scenari esotici per una storia d’amore ricca di peripezie ma che aveva sempre un lieto fine. Era già in uso mettere come protagoniste della storia coppie di omosessuali.Si diceva quindi che il romanzo di Petronio non era altro che una parodia o una caricatura del romanzo greco poiché ha come protagonista un trio di omosessuali e le avventure amorose erano molto licenziose; inoltre rimane anche in Petronio un’ambientazione di tipo esotico. Dopo che venne scoperto che anche nei romanzi greci vi erano coppie di omosessuali come protagonisti il romanzo latino non venne più visto come un a parodia di quello greco.Nonostante la lettura del romanzo avesse scopo d’evasione gli argomenti di cui trattava erano anche di tipo intellettuale; è più probabile che il destinatario vero e proprio dell’opera fosse l’intera corte di Nerone, di grado più alto rispetto al popolino.Lo scopo di Petronio è ignoto. Alcuni pensano che l’opera abbia una funzione di critica del bel mondo descritto, in questo caso quello della corte di cui però anche lo stesso Petronio fa parte. Altri pensano invece che si tratti semplicemente di una oggettiva descrizione di quel mondo che è visto da Petronio come “arricchito”; infatti non è formato dagli aristocratici ma piuttosto da diversi liberti che vengono nell’opera criticati da Petronio (nel I secolo d.C. molti liberti erano funzionari di corte ed acquistavano prestigio e denaro pur essendo sempre degli schiavi.). Lui si considera raffinato, loro sono solo invece buzzurri arricchiti. LATRAMA (pag. 241-242)
 LA DECADENZA DELL’ELOQUENZA (pag. 243-245):
Sta parlando Encolpio. Egli afferma che l’educazione retorica del tempo è completamente estranea a ciò che è la vita reale: i giovani che vengono educati nelle scuole, non appena si trovano nel Foro, si trovano spiazzati. Essi vengono educati con le “declamationes” di storie fantasiose o che comunque non accadono mai nella vita quotidiana e che hanno quindi un’utilità pari a zero.Fino a quel tempo erano tre gli stili utilizzati dagli oratori romani: il primo era quello Attico, sintetico, agile ed essenziale, utilizzato da Cesare, il secondo era quello Asiano (scuola di Pergamo), al contrario era ridondante nella forma ma badava poco alla sostanza, infine vi era lo stile Rodiese che era una via di mezzo tra i due precedenti, utilizzato da Cicerone. Nel nostro caso Petronio parla di una degenerazione dello stile Asiano, chiamato anche Barocco che ha avuto la prevalenza su quello Attico.Gli oratori del tempo non sono capaci di innovazione come lo furono invece Sofocle ed Euripide, creatori di grandiose opere, Pindaro ed altri, che non avevano imitato il grande Omero.Inizia poi a parlare il retore Agamennone. Egli dice che se ci si adegua troppo alle richieste degli alunni non si ottiene nulla da loro; sono gli alunni a doversi elevare al livello degli insegnanti e non gli insegnanti a doversi abbassare ai loro comodi. Secondo Agamennone le cause della decadenza dell’eloquenza vanno ricondotte in primo luogo alla scuola stessa che è avulsa dalla realtà; in secondo luogo ai genitori degli alunni ed alla società che sono mossi dall’ambizione e non si preoccupano dell’istruzione che costi fatica ed impegno ma di quella che dia risultati facili e veloci.Agamennone consiglia che vero oratore non dovrebbe inoltre servire alla volontà dei potenti e neanche essere commissionato dai ricchi ed essere venduto per poco. Dovunque egli risieda deve iniziare con lo studio della poesia, poi della filosofia, poi dell’oratoria ed infine della letteratura latina; a questo punto potrà aggiungere un po’ della propria inventiva e capacità.
OPINIONE DI PERSIO (pag. 245-246):
Persio era un contemporaneo di Petronio.Egli descrive gli effetti che un certo tipo di declamazione può provocare su chi ascolta.In quel periodo, dice Persio; si scrive senza tenere conto di cosa ci sia fuori dalla propria casa, pensando che le proprie opere siano di straordinaria bellezza. I declamatori sono ben pettinati, portano un grosso anello, curano la gola e sono gradevoli a vedersi e a sentirsi. Ciò che importa è il modo in cui si pongono e non quello che dicono. I Romani si lasciano turbare e condizionare dai loro discorsi.
 LA CENA DI TRIMALCHIONE: LE SORPRENDENTI PORTATE (pag. 246-250):
E’ qui descritta una cena sfarzosa, ostentata e di pessimo gusto, tipica dell’”arricchito”. Si guarda al pregio, al valore, le diverse portate sono arricchite da sorprese, il padrone di casa è ben curato d’aspetto ma bestemmia.
 LA CENA DI TRIMALCHIONE: LE RIFLESSIONI SULLA MORTE (pag. 251-253):
Si parla della limitatezza dell’uomo inl quale vive meno che una bottiglia di vino. Questo argomento era ormai un tòpos letterario, un’imitazione di discorsi passati. UNA SCENATA DI GELOSIA (pag. 254-255):E’ descritto un momento della narrazione in cui è messo in luce l’ambiente di ultima categoria dell’osteria.N.B. = LEGGERE LA CRITICA DI PAOLO FEDELI A PAG. 259-260 (SE SI VUOLE TUTTO IL SUO SAGGIO DISPONIBILE IN BIBLIOTECA)


STORIOGRAFIA IN ETA’ IMPERIALE
(pag. 328-335):

Per quanto riguarda la storiografia dell’età imperiale vi erano tre tipi di autori: i primi il cui pensiero era lo stesso di quello dell’imperatore (Velleio Patercolo e Valerio Massimo), i secondi che non approvavano il pensiero dell’imperatore e vi andavano contro (vennero ovviamente tutti sottoposti a censure e pene), i terzi il cui pensiero era diverso da quello dell’imperatore ma non lo davano a vedere (Curzio Rufo, che cerca di “barcamenarsi”, di coprirsi scrivendo sulle imprese di Alessandro Magno). Questi autori sono difficili da tradurre poiché utilizzano periodi lunghi ed articolati cercando di imitare Livio e Cicerone, ma ovviamente non ne sono capaci.
IL PANEGIRICO DI SEIANO – VELLEIO PATERCOLO (pag. 337-338):
Ci si sofferma sulle vicende di Augusto e di Tiberio, ovvero nel punto in cui si era fermato il racconto di Livio.In base ai gusti dell’imperatore, anche l’autore è più o meno accondiscendente nei confronti di chi sta parlando.In panegirico è un encomio, un elogio.Seiano era il prefetto del pretorio che aveva quasi assunto un pieno potere dell’impero dopo che Tiberio si era ritirato a Capri. Seiano era quindi un personaggio che entrò in conflitto con l’imperatore dopo essergli stato amico e nel momento in cui Patercolo scrive Seiano è un uomo potente; non gli si può dunque mettere contro.Dietro i grandi uomini ci sono altrettanto grandi uomini che il più delle volte non hanno un’origine nobili ma sono nobili d’animo. Seiano viene infatti descritto quasi come un eroe greco, bello dentro e fuori ma anche umile e modesto. Egli fa parte di quel gruppo di personaggi storici che hanno fatto grandi cose anche se non erano di stirpe ed origine nobile, come i cavalieri.
IL RITRATTO DI SEIANO SECONDO TACITO (pag. 339-340):
E’ tipico di Tacito descrivere gli imperatori all’inizio come benevoli e poi come pazzi.In questo passo tacito mette in rilievo gli aspetti positivi di Seiano (sicurezza e decisione) ma anche quelli negativi (capacità di persuasione del princeps, adulazione, superbia).

TACITO:

TACITO Agricola: La battaglia del monte Graupio: il discorso di Agricola (pag.381) Ai romani manca solo la parte settentrionale della Britannia da conquistare, Agricola ed il suo esercito potrebbero essere i primi a portare a termine tale impresa. Questo fatto è un motivo d’orgoglio sia per il generale sia per i soldati che se dovessero morire, morirebbero di morte dignitosa e gloriosa. Agricola incita il suo esercito giudicandolo estremamente forte, valoroso, composto da uomini abili e capaci. In questa situazione i romani non possono far altro che procedere ed attaccare il nemico. Agricola inoltre sminuisce il ruolo dell’esercito nemico, considerandolo incapace di sostenere una battaglia contro il grande impero romano. La vittoria è in mano ai romani. Il personaggio che emerge da questo discorso è proprio il condottiero, Agricola. Egli è presentato come un uomo orgoglioso delle sue conquiste, come un abile oratore e motivatore nei confronti del suo esercito. Inoltre egli non viene presentato come un generale che prende le decisioni da solo o come un personaggio autoritario, ma come un collaboratore dell’esercito e dello stato (come dovrebbe essere un ottimo funzionario di stato), infatti egli coinvolge i militari e li rende partecipi dell’impresa. Agricola agisce in funzione dello stato! Germania Seconda monografia di Tacito con carattere etnografico, unito al genere geografico e storiografico. I Germani rappresentano la popolazione in lotta con i romani fin dai tempi di Cesare. Inoltre questa popolazione viene vista con la stessa concezione di Cesare, ovvero come una popolazione lontana dalla civiltà ciò comporta due aspetti, uno negativo, l’essere rozzi bellicosi violenti ecc, uno positivo, l’essere intatti dalla corruzione che porta con se la civilizzazione. I Germani rappresentano un parallelismo con i romani del tempo antico (integri, portatori di valori ecc). Questo popolo rappresenta un probabile pericolo per i romani perché hanno in sé delle potenzialità anche belliche da non sottovalutare, ma i Germani fortunatamente non sono uniti sotto un unico condottiero che porterebbe le loro potenzialità alla luce e quindi c’è ancora speranza che il popolo romano riesca a batterli. La religione dei Germani (p.400) 9.1 I Germani tra gli dei venerano soprattutto Mercurio, a cui considerano lecito in giorni prestabiliti fare sacrifici anche con vittime umane. Placano Ercole e Marte con animali permessi. Parte degli Svevi fa sacrifici anche a Iside; ho poche informazioni riguardo la causa e l’origine di questo culto straniero se non il fatto hce lo stesso simbolo rappresentato come una nave indica che questo culto è stato importato. 9.2 Inoltre non considerano conforme alla grandezza dei celesti racchiudere gli dei tra le pareti né dar loro sembianze umane; consacrano le radure e i boschi e chiamano con il nome degli dei quel mistero (quell’essenza misteriosa) che vedono solo con la devozione. 10.1 I Germani seguono i presagi e le divinazioni, quant’altri mai (più di tutti). La consuetudine delle divinazioni è semplice. Tagliano a un albero da frutta un ramo a sua volta a pezzettini e li spargono su un telo candido separati da alcuni contrassegni in modo del tutto casuale. Subito, se le sorti sono interpellate per un bene pubblico, i sacerdoti del villaggio, se invece per un bene privato lo stesso capo famiglia dopo aver pregato gli dei e aver guardato il cielo ne prende tre uno ad uno e dopo averli presi li interpreta secondo i contrassegni impressi in precedenza. Se gli oracoli hanno dato esito negativo non avverrà nessuna consultazione sullo stesso argomento lo stesso giorno, se invece hanno dato esito positivo si richiede ancora la conferma degli auspici. 10.2 E questo è noto anche qui cioè interrogare il canto e il volo degli uccelli; è proprio di quel popolo invece esaminare i presagi e i moniti anche dei cavalli: i cavalli sono allenati a spese pubbliche nei medesimi boschi sacri dal manto candido e non contaminati dalle opere mortali (cavalli) che il sacerdote, il re o il primo cittadino affiancano aggiogati al carro sacro e a cui nitriti e fremiti prestano attenzione. Nessun auspicio gode di maggior fede/credibilità, non solo presso la plebe ma anche presso i nobili e presso i sacerdoti: infatti si considerano i ministri degli dei e quelli li considerano i loro tramiti. 10.3 C’è anche un altro modo di trarre gli auspici con il quale esaminano gli esiti delle guerre impegnative. Fanno combattere un prigioniero di quel popolo con il quale sono in guerra catturato in qualsiasi modo, con uno scelto del loro popolo ciascuno con le armi della propria patria (tipiche del suo popolo); la vittoria di uno o dell’altro viene presa come pronostico. Commento Nella parte 9.1 tende a presentare la pratica che riguarda il sacrificio umano come barbara ma anche agli albori di quasi tutte le civiltà sono presenti questi sacrifici (v. greci e fenici), quindi era una pratica conosciuta. Inoltre si parla del culto di Iside: non se ne conoscono le origini si sa solo che p stato importato perché la caratteristica che rappresenta la dea è la nave. Il culto della dea è molto famoso e ha riscontrato molto successo anche nel resto d’Europa (si possono riscontrare analogie tra il culto della dea Iside e il culto della Madonna). Nella Parte 9.2 vengono presentate divinità legate a fenomeni naturali, questa caratteristica è riscontrabile anche presso i Romani, infatti i fenomeni inusuali erano considerati di origine divina (Cfr. Seneca e Orazio). Infine le fonti che Tacito dispone sui Germani sono indirette (diversamente dalle fonti di cui disponeva Cesare). L’intento di Tacito è quello di mostrare i valori di questi popoli affinché fungano da esempio per i romani su com’erano una volta e non su come saranno

STILE E TEMI A livello stilistico troviamo in Tacito vari registri linguistici: usa infatti un linguaggio più altisonante nell’elogio del suocero e nel dialogus de oratoribus, mentre altre volte il lesico è più formale e semplice, quando ad esempio fa degli excursus storici. Tacito affronta varie tematiche nelle sue opere. Nell’agricola e nella germania viene affrontato il tema del brabaro, inteso come pericolo e quindi da sottomettere. Un altro tema è quello del principato, inteso come fonte di oppressione, ma necessario per il mantenimento della pace. Le tematiche tacitiane non si limitano tuttavia solo all’ambito storico-politico; comprendono infatti anche l’oratoria, di cui ammira l’antico splendore e della cui fine si rammarica.