lunedì 5 dicembre 2011

SENECA (LATINO)


SENECA
Indotto al suicidio, era un letterato che riuscì ad adeguarsi all’imperatore ma che poi se ne allontanò e pagò per questo con la morte.
EPISTULAE MORALES AD LUCILIUM (pag. 108)
Lucilio era un giovane politico, inesperto discepolo di Seneca, a cui Seneca funge da precettore. Seneca non si considera un uomo alle vette dello stoicismo bensì se ne trova ancora sulla strada; è comunque più avanti negli studi rispetto a Lucilio.
Le epistole che scrive non hanno nulla a che vedere con quelle di Cicerone (egli scriveva a destinatari noti delle lettere reali, raccontava di episodi accaduti davvero; le sue lettere avevano una funzione informativa per l’interlocutore e nascevano da esigenze reali). Per Seneca non è così; le sue lettere infatti hanno comunque un destinatario e fanno riferimento alla vita reale ma trattano soprattutto di argomenti filosofici e morali che riguardano le condizioni dell’uomo nel tempo in cui è collocato; questo genere di epistole forse non sono quindi pensate per essere necessariamente inviate ma piuttosto pubblicate.
Si dice che le epistole di Epicuro siano il precedente greco di quelle di Seneca. Seneca è uno stoico ma fa riferimento anche all’epicureismo quando gli sembra utile ed attinge alla fonte epicurea. Egli si sente come una sentinella che va ne campo nemico (epicureismo) e cerca ciò che gli sembra utile per il suo accampamento.
Lo stile delle epistole è caratterizzato quasi sempre da una brevità essenziale; si fanno molti riferimenti alle immagini concrete della vita quotidiana e quindi è utilizzato un linguaggio che tutti i lettori sono in grado di recepire (escludendo schiavi ed analfabeti).
Seneca non si rivolge più solo ai politici (gruppo stretto intorno all’imperatore) ma anche a persone che costituiscono la fascia popolare degli ex funzionari pubblici: l’autore li vuole rendere più consapevoli poiché la realtà in cui vivono non li soddisfa. Bisogna quindi trovare altri modi per vivere bene e soddisfarsi, nuovi modi per passare il tempo e riscoprire la propria identità, riconciliandosi con sé stessi e ritrovando serenità e tranquillità. Spesso infatti gli ex dipendenti dello Stato erano depressi perché non potevano più occuparsi della vita pubblica. La loro possibilità di parteciparvi si restringe sempre di più durante l’età Giulio-Claudia; non c’è più libertà di espressione e di partecipazione alla vita politica, a differenza dell’età repubblicana.

Sii padrone del tuo tempo (pag. 109-111 libro 3)
Seneca saluta il suo Lucilio.
1. Fai così o mio Lucilio: rivendica a te stesso, e trattieni e conserva il tempo che fino ad adesso o ti era sottratto, o rubato, o fuggiva. Convinciti che le cose stanno così come scrivo: un po’ di tempo ci viene strappato, un po’ ci viene portato via e un po’ sfugge. Tuttavia la perdita più sconveniente è quella che avviene per negligenza. E se vorrai fare attenzione, una grande parte della vita sfugge nell’agir male, la parte più consistente non facendo niente, e tutta la vita facendo altro.
2. Chi mi troverai che ponga un qualche prezzo al tempo, che calcoli il giorno, che capisca di morire ogni giorno? In questo infatti sbagliamo, cioè che proiettiamo in avanti la morte: una gran parte di questa è già passata; tutto il tempo che è alle spalle è dominio della morte. Fai dunque, o mio Lucilio, ciò che stai facendo, e tieni strette tutte le ore; così accadrà che tu dipenda meno dal domani, se afferrerai l’oggi. Mentre si rimanda, la vita trascorre.
3. Tutto, Lucilio, è estraneo, soltanto il tempo è nostro; la natura ci ha dato il possesso di questa sola cosa fugace e fuggevole, da cui allontana chiunque vuole (essere allontanato). E la stoltezza dei mortali è così grande che sopportano che siano imputate loro le cose che sono piccolissime e di pochissimo conto, certamente alle quali c’è rimedio, quando le hanno ottenute, mentre nessuno che ha ricevuto il tempo ritiene di essere debitore di alcunché, quando questo è l’unico bene che neppure colui che è grato può restituire.
4. Tu chiederai forse che cosa faccia io che ti do questi insegnamenti. Te lo dirò sinceramente: ciò che avviene a un amante del lusso ma scrupoloso, tengo il controllo delle spese. Non posso dire di non perderne, ma dirò che cosa perderò e perché e in quale modo; e renderò conto della mia povertà (di tempo). Ma a me capita ciò che capita alla maggior parte di coloro che sono ridotti in povertà non per colpa loro: tutti li perdonano, nessuno li aiuta.
5. E allora? Non credo povero colui per cui è sufficiente quel poco che gli rimane; tuttavia preferisco che tu mantenga i tuoi beni e che tu cominci a farlo ora che è il momento giusto. Infatti, come dicevano i nostri antenati: “L’oculatezza tardiva è sul fondo” (è inutile); infatti non rimane soltanto pochissimo sul fondo ma la parte peggiore. Addio.
COMMENTO
PARTE PRIMA
Questo brano, il primo dell’opera, non ha una funzione premiale anche se in esso troviamo elementi di continuità con il resto dell’opera.
L’esordio è in Medias Res, non c’è un’introduzione, sembra che Seneca stia rispondendo ad una domanda dell’interlocutore che chiede come ci si debba rapportare con il tempo. Seneca dice di “essere padroni si sé stessi” ovvero di mettere al centro della propria vita e del proprio tempo la propria persona. La colpa del passare del tempo o è una sua caratteristica o è colpa degli altri. Per godere del tempo che ci è dato dobbiamo utilizzarlo al meglio per noi stessi (si rivolge ai disoccupati).
Tra le prime due frasi abbiamo sei verbi quasi sinonimi; questa ripetizione è tipica del maestro che vuole far apprendere bene il concetto agli alunni.
La negligenza per Seneca è l’assenza di attività, la passività, il dedicarsi a cose poco importanti.
PARTE SECONDA
Seneca si chiede se ci sia qualcuno che tenga di conto il tempo; esso infatti è come una clessidra: ogni granello che cade è un passo verso la morte.
“Mentre si rimanda, la vita trascorre”: si tratta di una “sententia”. Le “sententiae” sono frasi che hanno un senso pieno anche se estrapolate dal contesto in cui sono inserite. Seneca è un filosofo che si occupa della vita dell’uomo; fornisce infatti indicazioni, consigli e risposte per la vita quotidiana dei lettori affinché essi riescano a dare un senso alla propria vita.
PARTE TERZA
La natura priva del possesso del tempo solo che ne vuole essere privato.
Chi ha ricevuto il tempo non ritiene di essere il debitore di niente e nessuno.
Molti danno peso alle cose di poco conto e non al tempo, il quale non potrà essere restituito. Gli uomini non si danno pensiero di perdere tempo.
L’ultimo periodo di questa parte è molto lungo e articolato all’interno; strano per Seneca!
PARTE QUARTA
Seneca spiega qual è il suo comportamento: egli usa il tempo consapevolmente e conosce bene quanto e come lo perde.


Dio è nel profondo dell’uomo. (pag. 120-123 libro 3)
Seneca saluta il suo Lucilio.
  1. Fai una cosa ottima e vantaggiosa per te se, come scrivi, perseveri a indirizzarti verso la saggezza, che è cosa stolta desiderare dato che puoi ottenerla da te stesso. Le mani non sono da tendere al cielo ne’ bisogna pregare il custode del tempio di lasciarci avvicinare all’orecchio della statua come se potessimo essere ascoltati di più: dio è vicino a te, è con te, è dentro di te.
  2. Così dico, o Lucilio: dentro di noi risiede uno spirito sacro, osservatore e custode dei nostri mali e beni; lo stesso dunque tratta noi a seconda di come esso è trattato da noi. Nessuno è un uomo buono veramente senza dio: ed è possibile che qualcuno si innalzi sopra alla sorte senza l’aiuto di quello? Lui da consigli grandi e nobili. In qualunque degli uomini buoni abita un dio, un dio che è incerto (grassetto = esametro di Virgilio).
  3. Se ti si presenterà un bosco fitto di alberi antichi e più alti del consueto e che copre la vista del cielo con il protendere i rami che si coprono gli uni gli altri, quell’altezza del bosco, l’isolamento del luogo e la meraviglia data dall’ombra così fitta in uno spazio aperto ed ininterrotta, ti spingeranno a credere in una divinità. Se una grotta sosterrà un monte con le sue rocce profondamente erose, non fatta dall’uomo, non scavata da cause naturali fino a così grande profondità, toccherà il tuo animo con il sospetto di una qualche presenza divina. Noi veneriamo le sorgenti dei grandi fiumi; l’improvviso sgorgare dal profondo della terra di un ampio corso d’acqua ha altari, le fonti di acqua calda sono oggetto di culto, sia il colore cupo sia la grande profondità hanno reso sacri alcuni laghi.
  4. Se vedrai un uomo coraggioso nei pericoli, puro dalle passioni, felice nell’avversità, calmo in mezzo agli sconvolgimenti, che guarda gli uomini dall’alto, gli dei allo stesso livello, non si insinuerà in te una venerazione per lui? Non dirai: “Questa cosa è troppo grande ed elevata perché possa essere ritenuta simile a questo piccolo corpo in cui si trova?”
  5. Una forza divina discende in questo; una potenza celeste muove l’animo superiore, equilibrato, che oltrepassa ogni cosa come se fosse di poco conto, che ride di ciò che temiamo e desideriamo. Una cosa così grande non può esistere senza il sostegno di un Nume; e così con la parte più grande di sè è lì da dove arriva. Come i raggi del Sole toccano sì la terra, ma sono là da dove sono emessi, così l’animo grande e sacro, mandato per questo, affinché conosciamo di più le cose divine, si trova sì con noi, ma resta saldo alla sua origine; da là si propaga, là guarda e verso là tende, partecipa alle nostre vicende come se fosse migliore.
  6. Che cos’è dunque questo animo? Ciò che non risplende di nessun bene se non del proprio. Che cos’è infatti più stolto del lodare nell’uomo ciò che gli è estraneo? Cosa è più insensato di colui che ammira le cose che possono passare ad un altro facilmente? Le briglie d’oro non rendono migliore il cavallo (...).
  7. Loda in quell’uomo ciò che non si può sottrarre ne’ dar, ciò che è proprio dell’uomo. Mi chiedi che cosa sia? E’ l’animo e la ragione completa dell’animo. Infatti l’uomo è un animale razionale; e così il suo bene viene portato a perfezione se compie ciò per cui nasce. Cos’è ciò che da lui esige questa ragione? Una cosa facilissima, vivere secondo la propria natura. Ma la pazzia comune rende ciò difficile: l’un l’altro ci spingiamo nei vizi. In che modo possono essere richiamati alla salvezza coloro che nessuno trattiene e che la massa respinge? Addio.
COMMENTO
PARTE PRIMA
La saggezza non è esterna ma è già dentro di noi.
Seneca immagina di rispondere a Lucilio che gli aveva probabilmente chiesto: “faccio bene ad aspirare alla saggezza?”
PARTE SECONDA
La divinità che si identifica con il Logos è qualcosa di esterno che comprende tutto quanto ma è nel contempo proiettato dentro ciascuno di noi.
Per giungere alla saggezza non dobbiamo supplicare nessuno perché il dio ce l’abbiamo già dentro di noi.
Seneca utilizza delle Variatio come: prope + tecum + intus : il primo ed il terzo sono avverbi mentre il secondo è un aggettivo.
Sacer - spiritus – sedet costituiscono una figura retorica di consonanza (s).
Se ascoltiamo la nostra componente divina riusciamo addirittura ad andare al di sopra del fato a noi predestinato.
PARTE TERZA
Uno spettacolo così non può che essere frutto di una azione divina!
La frase è molto lunga per enfatizzare il concetto.
Vi è una serie di periodi ipotetici della realtà.
Gli esempi prima sono pochi e lunghi, poi diventano tanti e brevi.
Bisogna avere fede nella possibilità dell’esistenza di una potenza divina.
PARTE QUARTA
Si parla dell’uomo saggio. Seneca enuncia la consapevolezza della possibilità del raggiungimento della saggezza: bisogna però dare spazio alla scintilla del Logos dentro ad ognuno.
PARTE QUINTA
E’ presentata una descrizione delle nostre potenzialità divine. Il saggio le sa rendere attuali.
L’anima deriva dalla grande anima universale (Logos intero) da cui si staccano le particole: ciò dimostra che l’anima dell’uomo non può esistere così bene se non ci fosse qualcosa di divino che la presiede al suo interno. Come il sole resta attaccato ai suoi raggi, il divino rimane comunque attaccato a ciò che propaga da sé.
PARTE SETTIMA
Tutti siamo presi da questo vortice di vizi: ci si tira l’uno con l’altro. Seneca è avverso alla folla, che considera appunto viziosa.


Il principe e il sapiente ( italiano, pag. 135-136 libro 3)
Chi si occupa di politica guarda sempre ad ambizioni più alte che lo spingono a voler affermarsi e a volere ancora di più. Il sapiente è invece colui che è tranquillo, come lo stesso Seneca, che scrive le lettere quando si è già distaccato dalla vita politica dello Stato.



Giustizia e clemenza, le due doti del buon principe. (pag. 130-132 libro 3)
  1. Ho deciso di scrivere il “De Clementia”, o Nerone Cesare, per servire in qualche modo da specchio e per mostrarti che tu giungerai al piacere più grande di tutti. Infatti, sebbene il vero frutto delle azioni compiute correttamente sia l’averle fatte e benché nessuna ricompensa delle virtù e degna di queste sia al di fuori di queste, giova guardare e ispezionare la buona coscienza, e anche mandare gli occhi verso questa immensa moltitudine discorde, sediziosa, sfrenata, pronta a esultare per la rovina degli altri e in egual modo per la sua, se romperà questo giogo, e così parlare tra sé e sé:
  2. “Sono stato io preferito e scelto tra tutti i mortali, per svolgere il ruolo degli dei sulla terra? Io sono arbitro della vita e della morte dei popoli; quale sorte o condizione abbia ciascuno, è nella mia mano; che cosa la sorte voglia che sia dato a ciascuno dei mortali, lo pronuncia per mio tramite; i popoli e le città traggono i motivi del benessere del nostro responso; nessun luogo gode di benessere senza il mio volere e la mia volontà: queste molte migliaia di spade, che la mia pace tiene ferme, al mio cenno saranno impugnate; dipende da me quali popoli sia necessario si debba distruggere completamente, quali deportare, a quali dare la libertà, a quali toglierla, quali re è opportuno che diventino schiavi e sulla testa di quali è opportuno mettere la corona, quali città debbano andare in rovina, quali nascano.
  3. In questo così grande potere né l’ira, né l’impeto giovanile, né il coraggio degli uomini, né l’ostinazione, che spesso fa perdere la pazienza anche agli uomini più tranquilli, mi spinsero a infliggere ingiusti supplizi, e nemmeno la gloria stessa, spaventosa nel mostrare la potenza attraverso il terrore, ma frequente nei grandi comandi. La spada è riposta anzi, legata vicino a me, è totale anche il risparmio del sangue più spregevole; nessuno, a cui mancano altre cose ma abbia il nome di uomo, non sia ben accetto presso di me.
  4. Ho la severità nascosta ma la clemenza a disposizione. Così mi proteggo, come se dovessi render conto alle leggi che ho chiamato alla luce dal torpore e dalle tenebre. Sono stato mosso dalla giovinezza di uno, dalla vecchiaia dell’altro; ho donato ad uno per il prestigio, a un altro per la umiltà; quanto non trovai nessun motivo di misericordia, ebbi pietà di me stesso. Oggi sono pronto, se gli dei mi chiedessero il conto, ad enumerare il genere umano.
COMMENTO
Il “De Clementia” è stato scritto:
<!--[if !supportLists]-->- <!--[endif]-->O mentre Seneca lavorava ancora per Nerone. In questo caso l’autore mette in luce le virtù che in princeps doveva esercitare nei confronti dei sudditi. Il princeps è assimilato al buon “pater familiare” che deve essere generoso e pietoso ma nel contempo arbitro della vita e della morte di chi dipende da lui; è concessione del princeps togliere le facoltà ai propri sudditi (governo paternalistico).
<!--[if !supportLists]-->- <!--[endif]-->O dopo l’uscita di Seneca dalla vita politica. In questo caso l’opera va vista come un monito a ciò che Nerone non ha fatto, quindi come critica al suo governo (è stato clemente ma solo in senso paternalistico).
PARTE SECONDA
E’ prevalente l’interpretazione del testo scritto dopo l’uscita dalla vita politica.
La concezione del sovrano sembra di tipo assolutistico.
I re e i popoli sono assoggettati a Roma e vengono indicate le azioni che il buon principe per loro grazie al suo arbitrio.
Vi sono rime e molte frasi brevi; alla fine però né scaturisce una frase molto articolata.
Tutto è prerogativa del principe nelle situazioni di conquista, non si parla di Consigli come il Senato.
PARTE TERZA
Nonostante un potere così grande il principe non si è mai lasciato trascinare nel dare pene ingiuste, abusando di questo grande potere. Egli non si è macchiato di tutti quei difetti che hanno di solito i sovrani (forse Nerone si era macchiato di questi difetti, se seguiamo la seconda interpretazione del brano).
Il principe si astiene a spargere il sangue, anche della persona più vile di tutte.
Seneca è portatore del valore dell’Humanitas i quali ideali Nerone probabilmente non portava avanti.
PARTE QUARTA
“procintu”= pronto a combattere, è un vocabolo preso dal linguaggio militare.
Il princeps deve essere severo ma in primo luogo clemente.
Le leggi di cui parla erano probabilmente rimaste nascoste per lungo tempo. Seneca sta volutamente esagerando o per una “captatio benevolentiae” dell’imperatore o per criticarlo abbondantemente.
Vi è una specie di autocensura dell’autore, per salvarsi la pelle e soprattutto per sottostare alle preferenze del sovrano; gli argomenti e gli esempi sono riferiti all’antichità in modo che non interferiscano con i sentimenti del princeps attuale,
Ricorda: comparativo + quam ut + congiuntivo = “troppo…(agg.).. per…(verbo)..”


Otium et negotium (italiano- pag. 150 libro 3)
PRIMA PARTE
Le ricompense e ricchezze che ricevono i funzionari pubblici sono disprezzate.
Praticare il Negotium ci mette in una condizione miseranda; non si riesce a distaccarsi dai propri beni, onori e vanità. E’ come essere sottoposti a schiavitù e tanti sono quelli che ne sono sottoposti e se la tengono cara.
SECONDA PARTE
Tema del tempo: pensiamo di avere un tempo illimitato per fare le cose e continuiamo a rimandarle.
Paura della morte: essa ci porta a peggiorare. Invece dovremmo arrivare alla fine della vita come lo eravamo all’inizio di questa, senza nessun male e nessuna colpa.



Quintiliano parla di Seneca (italiano-pag 145)
-          Seneca aveva anche una produzione scientifica (sintetizza le concezioni antiche riguardi i fenomeni di cui vuole trattare) a quei tempi però la trattatistica era solo di tipo compilatorio.
-          Per la tragedia si rifà al mito greco per gli argomenti. Non si sa datare la produzione tragica di Seneca:
  1. O durante il governo di Nerone. In questo caso anche le tragedie sono parte dell’insegnamento per il princeps. Si parla delle conseguenze nefaste derivanti dal lasciarsi prendere dalle passioni che avrebbero effetti deleteri sul principe.
  2. O dopo aver lavorato per Nerone. In questo caso le nefaste conseguenze sarebbero quelle in cui è incorso il princeps stesso.
-          le tragedie vennero scritte per poi essere rappresentate o soltanto per essere lette? Non si sa. In quel periodo avevano preso piede le “recitationes” ovvero davanti a un pubblico ampio ed anche popolare si leggevano opere o brani che dovevano servire come spunto per un dibattito seguente. Di ciò si occupavano gli oratori e gli scrittori tra i quali forse anche Seneca..
-          C’è chi dice che le tragedie di Seneca non vennero mai rappresentate perché in esse erano presenti scene di morte che non potevano, secondo la tradizione e la convenzione, essere presentate visivamente agli spettatori. Inoltre chi sostiene questa tesi fa notare che nelle tragedie di seneca si esce dall’unità di tempo, si descrivono eventi che non si svolgono nell’arco di uno o pochi giorni, ma in molto più tempo: questo rendeva irrealizzabile la rappresentazione della tragedia.
-          C’è chi invece sostiene che le tragedie di Seneca vennero rappresentate: d’altronde, dicono, chi dice che a Roma non si potesse nel I secolo d.C. rappresentare scene di morte??
-          Quintiliano è critico nei confronti di Seneca: lo ritiene poco accurato nella filosofia poiché sembra non avere mai posizioni definitive. Inoltre lo stile è considerato corrotto ( Quintiliano è sostenitore di Cicerone e scriverà in un modo simile a quello di Cicerone; nonostante questo nel suo modo di scrivere si intuisce che Seneca lo ha influenzato inevitabilmente, avendolo letto e studiato anche il critico Quintiliano è stato influenzato dal predecessore.)
-          Lo stile di Seneca, dice Quintiliano, è caratterizzato da “difetti attraenti” come l’omettere, il sottintendere ecc. Questo modo di scrivere piace, fa presa soprattutto sui ragazzi e non sugli uomini di cultura; il consiglio di Quintiliano è: va bene leggere Seneca per i colti che “sanno come prenderlo” ma non per i ragazzi e i giovani che ne verrebbero influenzati troppo.




 De Otio “il saggio sa giovare agli altri anche nella vita ritirata” pag 136-137 2. Le due scuole degli epicurei e degli stoici sono in grandissimo disaccordo anche su queste cose ma entrambe anche se per vie diverse indirizzano all’inattività. Epicuro dice: “il sapiente non arriverà alla politica a meno che non succeda qualcosa”; Zenone dice: “accederà alla vita pubblica a meno che non ci sia qualcosa che lo impedisca”. 3. L’uno cerca di proposito l’inattività, l’altro per un motivo. Ma quel motivo ha un vasto campo di applicazione: se lo stato è troppo corrotto per poter essere aiutato, se (lo stato) controllato da malvagi, il saggio non si adopererà inutilmente e non si impegnerà sapendo che non potrà giovare in niente; se avrà poca autorità o forza e lo stato non avrà intenzione di accoglierlo, se la salute glielo impedirà come non metterebbe in acqua una nave distrutta, come un malato non si arruolerebbe così non intraprenderà un percorso che sa essere impraticabile. 4. Anche colui che ha ancora tutto in suo potere, ancora prima di provare una qualche tempesta può rimanere al sicuro e affidarsi completamente alle virtù e reclamare un’inattività intatta, fautore delle virtù che possono essere esercitate anche delle persone più tranquille (che si sono dedicate completamente all’inattività). 5. Proprio questo è richiesto all’uomo, cioè che porti beneficio agli uomini; se è possibile (giova) a molti, se no a pochi, se no ai più vicini, se no a se stesso. Infatti quando rende se stesso utile a tutti gli altri, agisce nel bene comune: come colui che si rende peggiore non solo nuoce a se stesso ma anche a tutti quelli a cui avrebbe potuto giovare se fosse diventato migliore, così chi si comporta bene con se stesso giova agli altri proprio in questo poiché prepara un uomo che gioverà agli altri. 1. Abbracciamo con l’animo le due repubbliche: l’una grande e davvero pubblica nella quale sono compresi dei e uomini, nella quale non guardiamo questo o quell’angolo, ma limitiamo con il sole i confini del nostro stato; l’altra (è quella) a cui ci assegnò la condizione di nascita (questa sarà o degli Ateniesi o dei Cartaginesi o di una qualunque altra città), che interessa non a tutti gli uomini, ma solo ad alcuni. Alcuni allo stesso tempo si occupano di entrambe le repubbliche, di quella maggiore e di quella minore; alcuni sono della minore altri della maggiore. 2. Possiamo servire questa repubblica più grande anche nell’inattività, anzi a dire il vero non so se (la possiamo servire) meglio nell’inattività, in modo da ricavare che cosa sia la virtù, se sia una sola o se siano molte, se la natura o l’arte renda buoni gli uomini. COMMENTO Il De Otio si colloca negli ultimi anni della produzione di Seneca. È dedicato all’amico Sereno il quale appartiene ai ceti alti e che un tempo, come lo stesso Seneca, faceva parte della vita pubblica. Sereno si rivolge all’amico Seneca per chiedergli aiuto dato che ora la maggior parte della sua vita è dedicata all’otio (inattività). Ora lui ah una funzione nella vita pubblica di tipo passivo, ovvero come guida dei suoi simili. Questa “risposta” è una spiegazione che può valere per chiunque si trova nella situazione di Seneca o Sereno. PARTE 3.2 Entrambe queste scuole nascono per rispondere a una domanda comune nata durante il periodo ellenista: cosa fare dato che non ci si può più occupare della vita pubblica? Entrambe le scuole prevedono un arrivo comune incentrate sull’uomo e sul cammino che compie, che risulta diverso per le due scuole di pensiero. Epicuro dice che si può da subito ad astenersi dalla vita politica, mentre Zenone dice che bisogna partecipare alla vita polita a meno che qualcosa non lo impedisca. PARTE 3.3 I motivi per cui uno stoico deve ritirarsi dalla vita pubblica sono: × Lo stato è corrotto e controllato da malvagi; × Il saggio non è in grado di guidare lo stato; × Qualcuno impedisce al saggio di guidare lo stato; × Il saggio è malato. PARTE 3.4 Tuttavia anche chi non è stato colpito da una “tempesta”, ovvero che non è stato colpito da uno dei motivi sopra elencati ed ha ancora tutte le sue forze, può dedicarsi alla virtù. L’otio non è un ripiego alla vita pubblica ma può essere una scelta e un punto d’inizio. PARTE 3.5 Chi è utile a se stesso inevitabilmente gioverà meglio anche agli altri e migliorando se stesso migliorerà anche gli altri. Questa è la risposta al fatto che si possa in partenza scegliere l’otio perché risulta una scelta che migliora se stessi e gli altri. Non è una scelta contemplata dallo stoicismo romano, ma è una scelta dettata dalla propria situazione personale, Seneca è partito dalla corte di Nerone ma ciò non ha giovato a nessuno. PARTE 4.1 La repubblica più piccola si identifica con lo Stato, mentre è visibile una visione cosmopolita tipica del mondo greco in cui la patria è il mondo (patria che abbraccia tutti i popoli, gli dei, il cielo ecc…) Il compito primo dell’uomo è quello di giovare prima a tutti gli uomini e poi solo ad alcuni. PARTE 4.2 Dedicarsi all’inattività, e solo a questa, non aiuta solo lo stato in cui si è nati ma anche la repubblica “mondiale".

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