domenica 11 marzo 2012

Politica economica in Italia durante il fascismo

La politica economica italiana durante il Fascismo si può dividere in 4 fasi:
-prima fase: viene definita fase liberista e Mussolini si mette nelle mani di De Stefani
-seconda fase: và dal ’25 al ’30 ed è la fase di Giuseppe Volpi
-terza fase: và dal ’30 al ’35 ed è la fase dello “Stato banchiere-imprenditore” per affrontare la crisi
-quarta fase: comincia nel ’35 e la politica economica in questa fase è basata sul rafforzamento militare per affrontare i conflitti.

La prima fase porta un consistente incremento produttivo, ma anche un riaccendersi dell’inflazione, un crescente deficit nei conti con l’estero e un forte deterioramento del valore della lira, il cui rapporto di cambio con la sterlina scese a livelli mai toccati in passato; nel ’25 la politica economica subì una brusca svolta: cambiò il ministro delle Finanze (A Alberto De Stefani fu sostituito Giuseppe Volpi) e venne inaugurato un nuovo corso fondato sul protezionismo, sulla deflazione, sulla stabilizzazione monetaria e un più accentuato intervento statale nell’economia. Per prima cosa era necessario intervenire in ambito produttivo: si vuole arrivare ad una autonomia nell’ambito della produzione di cereali (si parla di “battaglia del grano”), migliorando le tecniche produttive, bonificando ecc. Si giunse a risultati significativi ma ci furono anche conseguenze negative poiché potenziando la produzione dei cereali, si giunse a trascurare la produzione negli altri ambiti. La seconda “battaglia” fu quella per la rivalutazione della lira (la quota novanta): nel ’22 il cambio era 90 lire per una sterlina, dal ’26 per una sterlina ci volevano 150 lire. L’obiettivo di “quota novanta” fu raggiunto con una serie di provvedimenti che limitavano drasticamente il credito e grazie all’aiuto di un importante prestito concesso allo Stato italiano da grandi banche statunitensi. I prezzi interni diminuirono per effetto della politica deflazionistica e del minor costo delle importazioni e la lira recuperò il potere d’acquisto perduto. Nonostante la situazione dia notevolmente migliorata, l’economia italiana non si era ancora ripresa dalla cura deflazionistica, quando cominciarono a farsi sentire le conseguenze della grande crisi mondiale. Il commercio con l’estero si ridusse drasticamente, l’agricoltura subì un nuovo duro colpo in tutti i suoi settori a causa del calo delle esportazioni e dell’ulteriore tracollo dei prezzi, le imprese industriali che si basavano sull’esportazione di conseguenza accusarono gravi difficoltà inducendo il governo a decretare un nuovo taglio dei salari. Si decise dunque di sviluppare i lavori pubblici, per rilanciare la produzione e attutire le tensioni sociali e si stabilì un intervento, diretto o indiretto dello Stato, a sostegno dei settori in crisi. Per salvare le banche dal fallimento, il governo intervenne creando dapprima un istituto di credito pubblico, l’Istituto mobiliare italiano (Imi), col compito di sostituire le banche nel sostegno alle industrie in crisi, e poi l’Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), dotato di competenze molto ampie. Il compito dell’Istituto avrebbe dovuto essere transitorio, limitandosi al risanamento delle imprese in crisi in vista di una loro “riprivatizzazione”. Quest’ultima tuttavia risultò impraticabile e in questo modo lo Stato italiano si trovò a controllare, anche se indirettamente, una quota dell’apparato industriale e bancario: diventò cioè Stato-imprenditore oltre che Stato-banchiere. A questo punto l’Italia era uscita dalla fase più acuta della crisi, anche se attraverso non pochi sacrifici. A partire dal ’35 Mussolini dà inizio ad una politica economica basata sul rafforzamento militare per affrontare i conflitti successivi.

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